Le sfide del costruire oggi nelle parole di un imprenditore-architetto a capo di un’impresa centenaria, impegnata nel coniugare qualità, innovazione e sostenibilità
Dalla monografia “RSA tra ricerca e sperimentazione”, un dialogo con l’impresa realizzatrice delle residenze Collegio San Filippo Neri e Maria Mazzarello.
Lei è imprenditore a capo di una realtà storica, attiva da oltre 100 anni in tutti i settori edilizi e con tutte le tipologie committenze. Cosa significa fare impresa oggi, tra esigenze del mercato, qualità del costruito e tempi sempre più ristretti?
Penso che oggi essere un’impresa di costruzioni di alto livello sia una delle cose più difficili. Richiede professionalità, capacità di lavorare con l’innovazione, di materiali, tecniche e tecnologie, e di garantire alte prestazioni. Se penso che mio padre, 50 anni fa, faceva impresa con suo fratello, i geometri di cantiere e due segretarie, è evidente quanto oggi sia fondamentale soprattutto una grandissima capacità organizzativa. Per fare le cose che faceva lui, oggi servono almeno 10 persone, tra tecnici e collaboratori. Nonostante questo, l’impresa di costruzioni ha un’immagine vecchia, l’impresario, edile e civile, è considerato un mestiere “facile”. Uno dei motivi è che, in un’economia ormai trainata dal settore finanziario, dall’informatica e rivolta verso le nuove frontiere aperte dall’intelligenza artificiale, il costruire continua a essere una delle cose più materiali e concrete che esistano. Ma anche l’identificazione, nell’immaginario collettivo, dell’impresa con il lavoro di chi sistema bagni, getta due pilastri o realizza la villetta a due piani, che non sono il modello che io rivendico come qualcosa di completamente diverso. Il nostro lavoro non viene premiato nemmeno a livello economico. Lo dimostrano gli utili, molto bassi se paragonati a quelli di aziende con pari fatturati attive in settori oggi più premianti e riconosciuti, come ad esempio quello biomedico, e le molte chiusure di realtà, anche storiche e ampiamente consolidate, che le periodiche classifiche restituiscono: nei soli ultimi 10 anni, quante imprese sono fallite? Oggi si continua a guardare alle imprese di costruzioni più per il cemento che gettano che per il servizio che rendono alla società, o per le strategie attivate per essere più sostenibili. Il nostro è un settore da cui si allontanano anche gli studenti, che ad esempio si iscrivono sempre meno ai corsi di Ingegneria Civile. Le colpe sono molte, sicuramente anche degli stessi costruttori che non hanno saputo fare sistema e valorizzare al meglio tutto quello che fanno di positivo. Ma anche a livello nazionale, pubblico, dei molti governi che si sono succeduti. Manca del tutto la programmazione, almeno a medio termine, di un settore che, come molti altri, segue un andamento ciclico, con momenti di picco e punti di minimo. Adesso stiamo vivendo ancora in un momento di picco, trainato dai bonus, ma tutti si aspettano un grande cambiamento di rotta dopo il 2027. Questa discontinuità ha un’importante ricaduta sulle imprese, con conseguenze sulla loro competitività e su quella di una filiera che comprende anche gli studi professionali. Questa previsione potrebbe ancora essere corretta: si potrebbe pensare, ad esempio, all’impostazione di un sistema di bonus al 70%, ma possibile per dieci anni. E non finanziando più un agevolazioni fiscali come il Superbonus 110%, con cui anche noi abbiamo lavorato, per soli due o tre anni. Serve una prospettiva temporale per guardare verso il futuro e investire. Gratis non si dà mai niente.
Lei è anche architetto, oltre che imprenditore: quanto è importante questo doppio ruolo nel settore edile? Quale valore aggiunto può dare?
È una bellissima domanda. Per me è un vantaggio enorme: l’essere un architetto fa sì che io lavori in questo settore innanzitutto per passione e con la voglia di fare il meglio possibile, entro i molti limiti imposti dalle diverse commesse. Dal punto di vista prettamente imprenditoriale, questo doppio ruolo porta sia gioie che dolori perché l’occhio dell’architetto non permette di focalizzarsi al 100% sul business: si guarda un po’ meno al margine di guadagno dell’impresa e si rivolge grande attenzione all’oggetto che si sta realizzando, alla bellezza dei risultati del lavoro, che sono uno dei migliori biglietti da visita possibili. Mi ricordo mio padre che mi diceva, quando studiavo e approfondivo l’architettura, “tu fai l’impresario, non fai l’architetto!”. Questo doppio ruolo rende anche l’impresario-architetto un temuto collaudatore e verificatore dei lavori che la sua impresa ha completato. Sicuramente essere architetto è anche un grande valore per il tipo di impresa che vogliamo essere, che vuole dare il suo contributo alla trasformazione del territorio lavorando bene.
Nel mondo delle costruzioni di oggi, è sempre più difficile reperire manodopera qualificata, fondamentale per ottenere risultati di qualità. Come si può migliorare questo aspetto?
Sicuramente oggi sono molto cambiati i rapporti, tra committenza, progettisti, impresa e manodopera, in un settore che è sempre meno qualificante. Una delle principali differenze tra il presente e il passato è proprio la qualità della manodopera che, un tempo, era attenta e qualificata “per sé”, e la sua affidabilità richiedeva anche meno controllo. Oggi abbiamo un’alta percentuale di lavoratori stranieri, che, a parte alcune eccezioni, sono generalmente meno formati. Il decadimento del profilo qualitativo della manodopera è anche una conseguenza di un nodo che ci riporta alla formazione e all’allontanamento progressivo, in corso ormai da molti anni, dei giovani dalle scuole edili che oggi nessuno vuole più fare. Le scuole edili sono il giusto punto di ingresso in un settore che richiede formazione e professionalità, nessuno può più “inventarsi” il mestiere solo perché sa maneggiare una cazzuola o costruire un muro. E questa mancanza si nota, soprattutto quando i capicantiere si trovano a dovere mandare via i subappaltatori. Un’azione possibile per correggere questo stato di fatto deve affrontare questo nodo e riportare i giovani ai mestieri legati alla costruzione. Come? Lavorando ad esempio a prospettive più concrete attraverso una programmazione pubblica almeno a medio termine, che possa permettere alle scuole edili di riorganizzarsi e ai giovani di pensare a un lavoro in questo settore. Anche il privato però deve fare la sua parte: per quanto riguarda noi, da anni stiamo formando i giovani, italiani ma soprattutto stranieri, che lavorano con noi, con risultati incoraggianti.