Walter Tocci, consulente del sindaco Gualtieri per il centro archeologico, indaga le vicende storiche e urbane della Capitale attraverso il nuovo progetto di Francesco Cellini
ROMA. Come tutte le architetture ben riuscite, la nuova piazza Augusto Imperatore si comprende meglio per esperienza diretta piuttosto che per astratti ragionamenti. Consiglio a chi non l’avesse ancora vista di osservarla dall’elegante salita/discesa che congiunge il livello urbano con quello alla base del maestoso Mausoleo di Augusto. Se ne ricavano, a mio avviso, suggestive visioni in entrambe le direzioni.
Salita e discesa
La discesa sembra invitare il visitatore a lasciarsi alle spalle il moderno per recarsi verso il monumento, offrendo un’insolita accoglienza priva di ostacoli, recinzioni e bigliettazioni. Un dolce piano inclinato connette il livello archeologico e quello urbano assicurando la continuità dello spazio pubblico, che per una volta si afferma come il principe regnante in città, dimenticando le sopraffazioni e le lacerazioni di cui è vittima nell’ordinaria incuria romana.
Al contrario, lungo la salita l’antico prorompe dal basso verso l’alto e genera una nuova significazione dell’incredibile caleidoscopio delle circostanti architetture moderne. Le chiese barocche ritrovano un contesto urbano nel quale esprimere di nuovo la propria solennità, che prima era come repressa dalla perdita di senso della piazza. L’architettura di Richard Meier trova dopo un ventennio la sua proiezione urbana, che pure aveva annunciato con perentorietà, ma era rimasta una promessa non mantenuta. Perfino le grandi statue di San Carlo e Sant’Ambrogio sembrano ricominciare a discorrere con gli altri monumenti.
Infine, la quinta quadrata delle architetture di Vittorio Morpurgo, che è rimasta estranea al cerchio antico del Mausoleo nella lunga fase della travagliata attuazione e poi nella rapida decadenza della piazza nel dopoguerra, oggi si scrolla di dosso l’aria tristanzuola e trova una sua qualità nella misura e proporzione con il contesto. Anzi, la nuova dialettica delle geometrie tra il cerchio antico e il quadrato moderno, finalmente connesse da uno spazio pubblico obliquo, eleva l’opera di Morpurgo tra le esperienze significative dell’architettura romana degli anni Trenta.
Oggi siamo in grado di apprezzare meglio quella stagione, poiché ci siamo liberati dai malintesi sia delle nostalgiche esaltazioni fasciste sia delle malriposte esecrazioni antifasciste. Ad adiuvandum, forse vale la pena ricordare che la qualità architettonica di quel decennio, pur nella varietà di tendenze dal razionalismo al classicismo littorio, scaturiva, almeno in parte, dalla necessità di coniugare l’estetica moderna con il perturbante delle rovine. Tale tensione ha generato una modernità inquieta vocata a contenere la potenza delle astratte geometrie novecentesche con il memento mori della potenza imperiale antica, qui rappresentata al suo vertice storico e monumentale dal Mausoleo di Augusto.
Vince lo spazio pubblico
A mio avviso, è stata proprio questa ricerca della misura a salvare la progettualità romana da quegli eccessi che più tardi hanno condotto il Movimento Moderno nei vicoli ciechi dell’autoreferenzialità e della serialità. Il sentiero interrotto dell’architettura degli anni Trenta trova quasi un secolo dopo un insperato sviluppo nella nuova Piazza Augusto Imperatore, non a caso con il progetto di uno dei migliori architetti contemporanei, Francesco Cellini, a capo di un ampio gruppo di progettisti, tra cui Dieter Mertens, i compianti Mario Manieri Elia e Renato Nicolini e con il contributo determinante e duraturo di Maya Segarra.
In questa opera l’architetto romano ha espresso non solo il suo talento, ma anche la passione civile che gli ha permesso di superare la quasi ventennale sequenza di ostacoli tecnici, istituzionali e politici, una sorta di summa delle difficoltà di solito frapposte alla trasformazione moderna della Capitale. L’accessibilità confidenziale è solo annunciata da questa prima fase realizzativa, ma sarà compiutamente sviluppata dal restauro del Mausoleo, a cura della Sovrintendenza Capitolina.
Il monumento, troppo a lungo estraneo alla vita urbana, diventerà visitabile e comprensibile in una molteplicità di visioni, lungo l’anello delle fondazioni, in una splendida passeggiata alberata sulla sommità e nell’allestimento interno a cura di Rem Koolhaas.
Anche la rielaborazione contemporanea rende più intenso il rapporto tra architettura e archeologia, esaltando la libertà di entrambe le discipline. L’architettura evita soluzioni imperative o estemporanee e trova la sua libertà nello statuto di scienza della misura tra spazio e vita. L’archeologia si concede la libertà di svelare la complessità del luogo augusteo, di suscitare la domanda di conoscenza, di alimentare la consapevolezza critica della più complessa stratificazione romana, ancora non pienamente compresa nelle trasformazioni imperiali e moderne.
L’impoverimento del patrimonio
Tutto ciò non è scontato, anzi sembra suggerire una riflessione critica sugli orientamenti dominanti nella politica italiana del patrimonio culturale, impoverita dalle tre RE: la REtorica, la REcinzione e la REndita. La Retorica della Città Eterna, della Grande Bellezza e simili, illustra una cartolina rassicurante che spegne il carattere perturbante delle rovine, impedisce di comunicare al largo pubblico i travagli delle interpretazioni scientifiche, elude la rielaborazione della memoria come una psicoanalisi urbana che renderebbe la città più consapevole dell’avvenire.
Un velo di certezze oggi impedisce all’antico di irrompere nel contemporaneo, inteso in senso nietzscheano come l’inattuale (Seconda Considerazione inattuale). Si perde la possibilità di agire nel presente senza identificarsi in esso, anzi di valorizzare l’antico come forza sovversiva delle patologie novecentesche: lo spazio pubblico devastato dall’automobile e la campagna romana sbocconcellata dalla dissennata espansione edilizia. La rielaborazione dell’antico nel contemporaneo non è un pranzo di gala, è la scelta rigorosa dell’inattualità come ispirazione progettuale.
La Recinzione non è solo un’arrogante negazione della Prossimità dell’Antico, ma denota una decadenza del principio della tutela, la quale si abbarbica sempre più sul monumento isolato, ignorandone volutamente le relazioni spaziali antiche e moderne. Nell’area più tutelata di Roma, infatti, sono state cancellate, senza che nessun Soprintendente ne provasse disagio, le due connessioni più importanti della città antica: il Clivo Capitolino è chiuso da un orribile cancello che impedisce il plurimillenario percorso tra il Foro e il Campidoglio; la recinzione dell’Arco di Giano blocca il passaggio del Velabro tra il Tevere e il Foro, cioè la relazione spaziale da cui è cominciata la storia di Roma.
La Rendita consiste nell’uso estrattivo dei beni culturali che sembra creare ricchezza e invece alimenta l’arretratezza. Il sistema economico, infatti, è impigrito dall’eccesso di offerta, da I Mali dell’Abbondanza di cui scriveva la compianta Andreina Ricci. Non c’è bisogno di inventare nuovi servizi o innovare le imprese, sono sufficienti fast-food e airbnb, tanto ci pensa il Colosseo a portare i turisti. I politici magnificano l’aumento dei flussi, ma la Banca d’Italia certifica la diminuzione del valore aggiunto e della produttività, segnalando quindi un arretramento rispetto ad altre città europee.
La penuria economica è figlia dell’impoverimento della politica del patrimonio, non solo della tutela, ma anche della valorizzazione. Sempre più questa è ridotta a merchandising e bigliettazione, con un’enfasi inversamente proporzionale alla modestia di queste voci nel bilancio macroeconomico. Del tutto assente, invece, è il significato culturale della valorizzazione – l’antico come energia di trasformazione della città futura – che non solo sarebbe un contributo al riconoscimento della cittadinanza, ma avrebbe anche un più profondo effetto macroeconomico.
Archeologia e città
Così è stato per gran parte della vicenda storica della Capitale. L’antico ha sempre ispirato la trasformazione urbana, già nei prodromi dell’epoca napoleonica – seguendo la retrodatazione di Italo Insolera nell’ultima edizione di Roma moderna – e poi nell’età liberale, fino al fascismo. Prima con gli strumenti della topografia di stampo illuminista e poi con le teorie di Gustavo Giovannoni sull’unitarietà del contesto urbano scandito dalle diverse epoche, come chiarisce Elisabetta Pallottino (in “Building Roma Capitale: knowing and interpreting the city of the past (1870-1925)”.
Nella giovane Capitale, nonostante le distruzioni di reperti causate dalla mancanza di un’organica legge di tutela, gran parte degli archeologi ha mostrato una spiccata progettualità urbana, da Luigi Canina con il restauro dell’Appia Antica, a Pietro Rosa con gli Horti Farnesiani, a Giacomo Boni con la sistemazione del Foro Romano, a Rodolfo Lanciani con la Forma Urbis e la Passeggiata Archeologica, a Corrado Ricci con i primi interventi sui Fori Imperiali.
Il fascismo porta all’estremo il connubio archeologia-città nell’area dei Fori Imperiali, all’Augusteo e non solo, con l’intento di imporre il mito politico della Roma imperiale. Forse per un eccesso di reazione a questo uso della storia, la Capitale della Repubblica non è stata più capace di pensare l’antico come leva del moderno. Anzi, il piano regolatore di Luigi Piccinato ha confinato la città storica in una zona tanto protetta da rimanere estranea al disegno della città, se non per l’illusione di spostare i ministeri a est, senza sapere però cosa farne dei palazzi eventualmente svuotati degli uffici.
Come l’architettura, anche l’archeologia segna negli anni Trenta un sentiero interrotto. È doloroso ammettere che in democrazia nessun progetto archeologico abbia avuto una proiezione urbana. L’unico tentativo è stato il Progetto Fori di Adriano La Regina, non a caso naufragato nella contrapposizione, non priva di equivoci, tra smantellatori e conservatori dello stradone.
Oggi, con il progetto CArMe la giunta Gualtieri prova a ripensare l’area archeologica centrale nella Prossimità dell’Antico e come sistema aperto alla scala metropolitana. Il primo passo è costituito dalla Nuova Passeggiata Archeologica progettata dal gruppo Labics, Orizzontale, Openfabric, vincitore del primo concorso internazionale. Il grande anello pedonale che circonda il Palatino, già realizzato a S. Teodoro e a S. Gregorio e in cantiere a fine anno anche a via dei Fori, offrirà una visione del sistema antico-contemporaneo non più frammentato in singoli monumenti.
Ma è soprattutto la nuova piazza Augusto Imperatore a voltar pagina, ripercorrendo entrambi i sentieri interrotti degli anni Trenta, sia dell’architettura sia dell’archeologia.
L’opera manifesto
In questa prospettiva storica il progetto di Francesco Cellini è un’opera manifesto. Poiché coglie un problema di validità generale troppo a lungo trascurato nella modernizzazione della Capitale. E offre una soluzione aperta ad altre situazioni similari, rifuggendo però dal pericolo dello standard e anzi richiamando la forza generativa dell’archetipo. Il problema è quale relazione si può instaurare tra il livello antico e quello moderno. Come spiega Daniele Manacorda, Il racconto di due città dura da quasi un millennio, cioè da quando il grande rinterro medievale ha consegnato all’oblio la struttura urbana tardo imperiale coprendola con una nuova trama ancora visibile ai nostri giorni. Nell’area in questione si è aggiunto il rinterro che ha dato luogo all’utopia rinascimentale del tridente di piazza del Popolo. D’altronde la relazione alto-basso è fondata non solo nella storia, ma anche nella geografia della valle fluviale circondata dai Colli.
La soluzione non può che venire dai mille modi in cui si disegna il piano inclinato. L’esempio di Cellini può essere applicato, per esempio, alla sistemazione finale degli scavi dei Fori Imperiali, come ha indicato il Sovrintendente Claudio Parisi Presicce proprio nel discorso inaugurale della piazza Augusto Imperatore. È apparsa una dichiarazione innovativa e coraggiosa; eppure, a pensarci bene, dovrebbe essere perfino scontata. Avendo alle spalle un millenario problema alto-basso, noi romani dovremmo essere i più bravi al mondo nel disegnare la magia del piano inclinato. In effetti, abbiamo alcuni esempi mirabili, come la scalinata di Trinità dei Monti, la cordonata michelangiolesca della piazza del Campidoglio o le ville sulle pendici dei Fori (Aldobrandini, Rivaldi, Horti Farnesiani tra le altre) frutto del genio rinascimentale. Non a caso, anch’esso alimentato dalla Stimmung della modernità inquieta, se non rimaniamo prigionieri dell’Humanismus perfetto e compiuto à la Winckelmann e interpretiamo l’Umanesimo come la ricerca controversa, molteplice e aperta descritta da Massimo Cacciari in La mente inquieta.
Purtroppo, la nostra modernità della Retorica, della Recinzione e della Rendita non esprime più alcuna inquietudine, non è in grado di rielaborare l’antico poiché confonde il contemporaneo con il presente, ignorandone la feconda inattualità. Così la tutela solo monumentale, ma non relazionale, non sa trovare altre soluzioni che non siano tristi recinzioni o incomprensibili buche archeologiche, come l’ultima aperta a piazza Venezia, una congerie di murature che perfino gli archeologi faticano a interpretare come gli Auditoria di Adriano. Se l’archeologia ha dimenticato la cultura urbana dei giganti, da Rodolfo Lanciani a Pietro Rosa, a Corrado Ricci, fino ad Adriano La Regina, allora l’opera di Francesco Cellini è una luce emergente nella lunga notte. Speriamo diventi l’alba di una nuova Prossimità dell’Antico.
Questa è già inscritta nella storia e nella geografia del sistema urbano. Riconoscerla è compito di un’architettura capace di esprimere tutta la sua potenza progettuale con il gesto più mite: dare la parola a Roma.
Immagine di copertina: Roma, Piazza Augusto Imperatore, Francesco Cellini, 2025 (© MonkeyS Video Lab)
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archeoilogia , piazza augusto imperatore , roma , spazio pubblico
Last modified: 9 Luglio 2025