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Laura MilanWritten by: Professione e Formazione

Architecture’s Afterlife: quanti architetti non fanno gli architetti

Architecture’s Afterlife: quanti architetti non fanno gli architetti

In una ricerca internazionale l’impatto – e i temi emergenti – di un titolo di studio che porta moltissimi laureati a svolgere la professione in una maniera non tradizionale, ma flessibile, versatile e creativa

 

Afterlife (parola inglese che in italiano significa più o meno vita nell’aldilà) è il titolo di una fortunata e pluripremiata serie britannica in cui Tony Johnson, un giornalista interpretato da Ricky Gervais, affronta con un grande cambiamento la prematura scomparsa della moglie. Si è liberato da molti freni e inibizioni, spiazzando e disorientando amici e colleghi.

Esiste una sorta di afterlife anche nell’architettura? Secondo Architecture’s Afterlife. The multisector Impact of an Architecture Degree, un libro edito da Routledge, disponibile nella sola lingua inglese, la risposta è, evidentemente, affermativa. Gli esiti della ricerca internazionale triennale restituita al suo interno si sono concentrati su un altro cambiamento, del tutto inatteso solo a uno sguardo superficiale, che sta portando i laureati in Architettura, e, per continuità, anche gli architetti, a trasformarsi di fronte al mondo contemporaneo.

Supportata dal Programma Erasmus+, si prefiggeva di indagare l’impatto dei percorsi di studi in Architettura e quantificare la misura in cui le competenze insegnate, e acquisite, fossero necessarie ai laureati in architettura anche in altri settori. Gli obiettivi erano anche molti altri, in primis fornire letture utili, ad esempio, al ripensamento delle offerte formative in un ambito in cui l’identità dell’architetto e il suo ruolo nella società stanno cambiando più rapidamente di quanto si percepisca. Ma anche definire le competenze e il posizionamento, la riconoscibilità e l’autorevolezza della figura dell’architetto all’interno di un mondo del lavoro dai confini che si sono molto allargati rispetto al passato. Guardando verso un futuro che, chissà, potrà vederli preziosa risorsa in ambiti oggi ancora poco riconoscibili, anche da parte di Università e, in Italia, Ordini professionali.

La ricerca ha coinvolto docenti e ricercatori provenienti da School of Architecture del Royal College of Art (Regno Unito), Università di Anversa e KU Leuven Faculty of Architecture (Belgio), Facoltà di Architettura della University of Zagreb (Croazia), Politecnico di Torino (con un gruppo guidato da Michela Barosio) e Universitat Politècnica de València (Spagna), che si sono riunite in consorzio.

 

Quasi il 40% dei laureati in Architettura non fa l’architetto

Punto di partenza è il risultato meno atteso di un questionario, Architectural education: a progression inquiry, che, affiancandosi a 48 interviste dirette, ha sottoposto le sue domande a 2.637 laureati provenienti da 32 paesi europei: quasi il 40% dei laureati in Architettura sceglie di non fare l’architetto, almeno non nel senso più tradizionale della professione. Apprendiamo dalla stessa pubblicazione che negli Stati Uniti ha fatto la stessa scelta addirittura il 46% dei laureati.

Sfogliando le pagine del libro, anche solo superficialmente, si è subito alla ricerca degli ambiti che vedono impegnato questo numeroso gruppo internazionale. La parte più consistente, il 21%, combina la professione nella sua forma più tradizionale con attività ad essa correlate; il 10% applica invece le competenze acquisite, impegnandosi spesso in più lavori contemporaneamente, in industrie creative come cinema e grafica ma anche nel giornalismo e nella scrittura o lavorando come docente part-time e ricercatore. Un altro 7%, infine, ha deciso di dedicarsi a carriere completamente diverse, che comprendono anche l’impegno politico.

 

Versatilità, problem solving, pensiero critico e un grande e orgoglioso senso di appartenenza

Come è possibile questo successo? Grazie a soft skills diffusamente presenti che rendono gli architetti presenze preziose e versatili in numerosi ambiti lavorativi: flessibilità, capacità di adattamento, di problem solving e di gestione della complessità e l’attitudine a pensare in modo critico e creativo. Ma anche una multidisciplinarità che è carattere distintivo e riconosciuto della professione fin dai tempi di Vitruvio.

Queste competenze sembrano tuttavia sfuggire sia al mondo del lavoro, e ai suoi meccanismi di valutazione e selezione (ma anche parametri su cui si basano le remunerazioni), sia alle stesse università, che appaiono realmente disallineate rispetto alle richieste di un mercato del lavoro sempre più fluido e molto più frammentato di quanto superficialmente possa sembrare. Ma proprio loro saranno alcune delle chiavi che permetteranno la sopravvivenza di una figura che, come molte altre, deve essere in grado di superare con successo anche l’obsolescenza portata dai rapidi sviluppi tecnologici.

Il libro affronta moltissimi altri temi, primo fra tutti una delle questioni da molto tempo più importanti e nodali, quella identitaria, relativa a cosa sia l’architetto, quali siano i caratteri che lo definiscono e lo rendono riconoscibile posizionandolo sul mercato. La questione è complessa e i confini, come i termini, molto sfumati e sfuggenti. Tratto comune, indiscutibile e fermo, osservato proprio da Michela Barosio e Santiago Gomez all’inizio del capitolo 8, è un orgoglioso senso di appartenenza che non è basato solo sulla formazione ricevuta ma è alimentato dalla condivisione di valori, riferimenti culturali e modalità di svolgimento di una professione libera: “Tutti i laureati in Architettura rivendicano il loro essere architetti, anche se non lavorano in campi ad essa direttamente correlati”.

 

Una riclassificazione delle qualifiche ormai improcrastinabile

Tra i molti temi, non manca un altro nodo mai sciolto, la cui chiusura serrata sottolinea la necessità di un intervento guidato a livello politico: una improcrastinabile riclassificazione generale delle qualifiche dei laureati in Architettura a riconoscimento di competenze che oggi, lavorando sottotraccia, possono aiutare ma anche ostacolare occupazione, mobilità e la percezione di una carenza di competenze spesso frutto di difficili incontri tra domande e offerte.

Chiude il libro una piccola sezione con alcune testimonianze dirette di laureati in Architettura che, tra web designer, organizzatori di eventi e anche fotografi, hanno saputo cogliere le opportunità di questo momento di cambiamento. Le loro personali afterlives dimostrano come si possa concretamente cambiare senza negare, rafforzare e rinnovare de facto l’identità di una professione in trasformazione che richiede molta più attenzione. Perché il futuro non vedrà scomparire gli ambiti di impiego più tradizionali ma li vedrà sempre più affiancati da professionisti diversamente impegnati ma che non saranno per questo meno architetti.

 

Abbiamo posto qualche domanda a Michela Barosio (responsabile del gruppo di lavoro del Politecnico di Torino) per approfondire la situazione italiana in questo contesto e capire meglio quali direzioni sta già prendendo il futuro.

 

Cosa si può dire di più specifico rispetto ai molti temi della ricerca sugli architetti italiani?
Due le differenze marcate tra gli architetti italiani e il resto degli architetti europei. In primo luogo, l’Italia è stabilmente in testa nella proporzione di architetti rispetto al numero di abitanti con 2,5 architetti ogni mille abitanti rispetto all’1,5 della Germania o allo 0,5 della Francia e a una media europea di 1 architetto/1.000 abitanti (dati Cnappc 2021). L’altra specificità che emerge dal sondaggio condotto internamente alla ricerca è il settore lavorativo in cui esercitano i laureati in Architettura. In Italia, poco più del 40% dei laureati in architettura intervistati esercita come architetto, all’estremo, in Croazia, si tratta di quasi l’80%. Se la quota di laureati che associano al mestiere di architetto un’altra professione (insegnante, grafico o curatore di mostre) si attesta per la maggior parte dei paesi europei considerati, Italia compresa, intorno al 15%, è invece notevolmente più alta in Italia la percentuale di laureati in Architettura che esercita in settori che nulla hanno a che fare con l’ambito architettonico (quasi il 20% contro circa il 10%, o anche meno, negli altri paesi europei).

I laureati in Architettura italiani, inoltre, sono gli unici, insieme a quelli spagnoli, a essere formati per operare anche nei settori del restauro, della pianificazione e dell’ingegneria strutturale. In tutti gli altri paesi europei la laurea in Architettura non prepara a lavorare in questi settori che hanno invece percorsi di studi dedicati che però non permetto a loro volto l’accesso alla professione dell’architetto progettista.
Possiamo infine ricordare che i laureati in Architettura italiani sono tra i pochi in Europa che devono superare un esame specifico per essere abilitati ad esercitare la libera professione, mentre nella maggior parte dei paesi (Germania, Francia) è il tirocinio obbligatorio post-laurea ad essere abilitante, o in alcuni casi (Norvegia, Belgio o Paesi Bassi) bastano la laurea e l’iscrizione all’Ordine professionale.

Le considerazioni possono essere predittive verso quali settori potrebbe/dovrebbe riorientarsi la professione? Da architetti, pianificatori, paesaggisti, conservatori a, di nuovo, solo “architetti”?
Dal sondaggio, ma anche dalle numerose interviste condotte, emerge come il settore delle cosiddette creative industries sia in forte espansione e sembri apprezzare particolarmente le competenze che i laureati in Architettura possiedono. Parliamo dei settori dell’editoria, magari specializzata, della curatela di mostre, della fotografia, della grafica pubblicitaria e non, della moda e del design. Per quanto riguarda gli ambiti dell’architettura invece, la ricerca evidenzia come siano oggi diversi e molteplici i tipi di architetto a essere richiesti dal mercato. Da un lato emerge una richiesta di architetti fortemente specializzati in ambiti tecnici come la gestione del cantiere, la sicurezza sul cantiere, le nuove tecnologie bioclimatiche ed ecocompatibili, la progettazione energetica e acustica, e d altri ancora. Dall’altro si evidenzia invece la fortuna di studi di professionisti capaci di abbracciare visioni più ampie come quelli che la ricerca ha definito Activist Practices, cioè quei gruppi di professionisti che innescano riflessioni su problematiche etiche o sociali e propongono strategie o strumenti per affrontarle, o, ancora, le Strategic Practices, gruppi di professionisti con competenze complementari, quindi non solo architetti, che si candidano a gestire l’intero processo di ideazione, progettazione, costruzione e finanche di gestione.

In che modo invece deve intervenire l’Università italiana? Cosa deve essere rivisto nelle materie di insegnamento e nel rapporto con l’esterno, in primis con gli ordini professionali?
Per permettere la formazione di figure professionali così diversificate occorre che i percorsi di formazione universitaria diventino più flessibili. L’auspicio è che le lauree in Architettura ragioni su un corpus di insegnamenti obbligatori che soddisfino i requisiti formativi stabiliti a livello europeo dal Processo di Bologna (1999), ma offrano anche la possibilità di personalizzazione, attraverso insegnamenti opzionali, in ambiti anche molto distanti dall’architettura, che gli studenti possano liberamente, à la carte, in funzione del futuro professionale a cui aspirano. Tra questi crediti a scelta un’attenzione speciale dovrebbe essere riservata alle cosiddette soft skills, protagoniste indiscusse tra le competenze che contraddistinguono i laureati europei in Architettura.

Autore

  • Laura Milan

    Architetto e dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, si laurea e si abilita all’esercizio della professione a Torino nel 2001. Iscritta all’Ordine degli architetti di Torino dal 2006, lavora per diversi studi professionali e per il Politecnico di Torino, come borsista e assegnista di ricerca. Ha seguito mostre internazionali e progetti su Carlo Mollino (mostre a Torino nel 2006 e Monaco di Baviera nel 2011 e ricerche per la Camera di Commercio di Torino nel 2008) e dal 2002 collabora con “Il Giornale dell’Architettura”, dove segue il settore dedicato alla formazione e all’esercizio della professione. Dal 2010 partecipa attivamente alle iniziative dell’Ordine degli architetti di Torino, come membro di due focus group (Professione creativa e qualità e promozione del progetto) e giurata nella nona e decima edizione del Premio architetture rivelate. Nel 2014 costituisce lo studio associato Comunicarch con Cristiana Chiorino

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Last modified: 15 Gennaio 2025