Riceviamo e pubblichiamo alcune considerazioni a margine della mostra sul Rinascimento a Brescia, allestita presso il Museo di Santa Giulia
Negli anni settanta Andrea Emiliani, storico dell’arte al tempo soprintendente di Bologna, titolava un suo libro Dal museo al territorio. La sua lezione era chiara: le opere d’arte (a partire dalla pittura) vanno lette, guardate, accolte quali germinazioni di un contesto insieme storico e geografico, come frutti di una civiltà artistica – per usare un termine della critica letteraria – cronotopica in cui l’opera d’arte rompe il confinamento estetico del museo per spargere la sua pregnanza storica nei luoghi del territorio.
La lezione pionieristica di Emiliani pare aver trovato a Brescia un’eccellente applicazione, poiché la succinta e densissima mostra «Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552», allestita presso il Museo di Santa Giulia (fino al 16 febbraio), si dirama nei rimandi ad altre opere dei tre sommi maestri bresciani e di vari protagonisti coevi (Tiziano, Lotto…), opere conservate in diverse sedi museali quali la vicina Pinacoteca Tosio Martinengo e, ancor più, disseminate in palazzi e chiese e monasteri del notevole centro storico cittadino, nonché rintracciabili lungo alcune importanti direttrici territoriali che si allungano sino a lambire le Prealpi. (Il tutto lo troviamo riassunto in una guida gratuita in cui la Fondazione Brescia Musei espone la sua strategia culturale, che va, appunto, dalla mostra al museo al territorio.)
Ma forse non è nota a tutti l’eccezionale statura artistica dei maestri del Rinascimento bresciano, e la mostra presso il Museo di Santa Giulia (che fa parte del sito Patrimonio Unesco di Brescia), con poche decine di quadri che inebrierebbero anche un incontentabile Stendhal, sono comunque lì a dimostrarlo. A dimostrarlo esteticamente, certo, ma anche cronotopicamente, grazie all’inserto nelle stanze espositive non solo di semplici benché attente legende che scandiscono le sezioni della «devozione», dell’«armonia» o della «cortigianeria», ma anche di selezionati documenti che attestano l’Umanesimo bresciano: ne sono esempio la prima traduzione in volgare e pubblicazione nel 1531 a Brescia dell’Enchiridion di Erasmo da Rotterdam a opera dell’umanista Vincenzo Maggi, o gli studi e il trattato di agronomia di Agostino Gallo, a testimonianza di quanto l’Umanesimo impregnasse non solo l’arte ma anche la morale e persino l’agronomia, come a voler ribadire ulteriormente che il nostro sguardo storico-artistico ha sempre da ampliarsi dal museo alla città e al territorio, dalla chiesa alla campagna, dalla collezione alla villa. Con queste lenti ci viene chiesto di contemplare i capolavori del Moretto, detto anche il «Raffaello lombardo»; o di Savoldo, autentico annunciatore della luce teatrale di Caravaggio; o del Romanino, gagliardo «pittore del popolo» avanti il socialismo, autore – secondo le condivisibili esaltazioni di Giovanni Testori – della «Sistina dei poveri», la piccola chiesa di Santa Maria della neve a Pisogne, borgo dove le acque del lago d’Iseo si arrendono alle Prealpi.
1512-1552: sono quaranta gli anni che delimitano storicamente la mostra e i suoi riferimenti territoriali, anni che dal saccheggio francese di Brescia, che trova il suo manifesto nel drammaticissimo bassorilievo del Bambaia, si aprono alla parabola della rinascenza cittadina cantata a sua volta in una sequenza di quaranta pitture, una più bella dell’altra, che con sottile colpo di scena i curatori (Roberta D’Adda, Filippo Piazza, Enrico Valseriati) hanno deciso di concludere con il ritratto del Moretto a Fortunato Martinengo (Londra, The National Gallery; immagine a fianco), dove il rampollo della famiglia più importante della città celebra il Rinascimento a Brescia nella postura poetica della malinconia.
Immagine di copertina: il sito Unesco di Brescia (a destra, il complesso del Museo di Santa Giulia)
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arte pittorica , brescia , lettere al Giornale , mostre , Rinascimento
Last modified: 18 Dicembre 2024