Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sulla necessità di ridefinirne la concettualizzazione, in rapporto al programma
La copiosa letteratura sul contesto ne ha spesso esaltato i contenuti storici e culturali, quasi metafisici, in contrapposizione alla tabula rasa proposta dallo scientismo del Moderno. Nella cultura disciplinare italiana dagli anni del dopoguerra con gli studi tipologici di Saverio Muratori e l’approccio linguistico critico di Ernesto Nathan Rogers, il contesto nella sua accezione più ampia si declina nel fondamento del rapporto tra progetto e ambiente. Christian Norberg Schulz chiarisce con il suggestivo rimando al “genius loci” l’importanza della ricerca dei linguaggi architettonici e costruttivi in grado di radicarsi nella geografia dei luoghi in cui si pongono. Una definizione ancora oggi attuale anche quando la semplificazione dell’architettura contemporanea sembra fuggire dal tema rifugiandosi in nuove declinazioni della natura cercando, invano, di superarne l’antropocentrismo.
Un concetto aleatorio
La riflessione sul contesto negli ultimi anni, seppure centrale nello sviluppo di qualsiasi progetto, è diventato aleatoria, demandata all’ambizione culturale dell’architetto, nelle varie poetiche, o agli enti predisposti alla conservazione del patrimonio storico, spesso condizionati dalle sensibilità individuali dei funzionari. La dimensione discrezionale del contesto ha contribuito alla sua progressiva marginalizzazione nel dibattito architettonico, scavalcato dalla centralità politica dell’impegno ambientale e dell’efficientismo (energetico ed economico), lasciando ai margini e a poche opere autoriali la dimensione culturale del progetto.
Per rimettere al centro del dibattito il contesto credo sia importante ridefinirlo nei suoi aspetti oggettivi (reali), evitando nella fase analitica di caricare il termine di altri significati se non quelli materiali. Il contesto da questo punto di vista è la stratificazione nel tempo delle trasformazioni del territorio da parte della natura e dell’azione dell’uomo. La sua presenza è fisica, materiale, oggettiva. Da un certo punto di vista potremmo definirla come uno stato in un determinato tempo di una “verità” indiscutibile. Il contesto topografico e morfologico, sia territoriale sia urbano, è la concretizzazione di una serie di processi, naturali e antropici, dei quali non è possibile essere indifferenti e che comunque, anche se destinati all’oblio, richiedono un’azione distruttiva da parte dell’operatore della trasformazione, anch’essa parte di un eventuale progetto. Se il contesto è una realtà evidente, le azioni naturali e antropiche che lo hanno determinato richiedono al progettista l’approfondimento in modo da garantirne se non la conservazione o la memoria, almeno il senso ancora oggi presente (il principio insediativo, la relazione con gli altri elementi del territorio) e la potenzialità inespressa che potrebbe essere parte della nuova trasformazione. Il contesto è per sua natura oggettivo e, proprio per questa sua caratteristica, è fondamento del progettare.
Polis-programma-progetto
Giambattista Vico nella Scienza Nuova mette in relazione i termini polis e polemos (assonanza del tutto infondata etimologicamente) con l’intento di spiegare quanto nel governo della città fosse radicato il concetto di conflitto civile nelle violente dinamiche decisionali. La polis, nella prospettiva vichiana, è determinata dal dominio insensato di passioni violente e incontrollate che propiziano la nascita delle prime comunità civili. La polis è quindi il risultato della volontà politica della comunità che violentemente intende appropriarsi della realtà fisica in un determinato tempo per “abitare”, cioè per esistere. L’intenzionalità di poter affermare la propria presenza nel mondo si materializza con il raggiungimento degli obiettivi politici dei vincitori che definiscono le azioni di trasformazione della realtà, del territorio e dell’ambiente, in cui vivono. La volontà politica indirizza le scelte che, prima ancora che essere progetto, sono un “programma”, cioè obiettivi essenzialmente funzionali alla realizzazione del proprio habitat, direi dell’ordine del mondo immaginato. Finché non si trasforma in progetto il programma è metafisico, non ha i caratteri della realtà. Nella sua astrazione è argomento di discussione, polemos, di tutta quella tensione politica che divide la comunità in fazioni contrapposte. Alla fine di processi più o meno lunghi e violenti la volontà della polis si concretizza nel progetto, o meglio s’incarna in esso, diventando nella sua realizzazione finale contesto, cioè realtà (verità), un’ulteriore stratificazione di esso. La contingenza e soggettività del programma una volta fattosi “carne” si oggettivizza ed esce dalla polemica mondana fino a quando non si presenteranno le condizioni di un nuovo programma, la realizzazione di un nuovo mondo, cioè quando sarà solo contesto stratificato preesistente.
La concretizzazione del programma, volontà della polis, si sviluppa in un processo tecnico complesso e pluridisciplinare diretto dalla figura dell’architetto che ne determina forma e materia. La responsabilità di quest’azione è incredibilmente gravosa, necessita di competenze tecniche e argomentative convincenti per conservare la fiducia e gli investimenti economici della comunità. Il progetto è quindi un’azione di trasformazione di una realtà, il contesto, che si è stratificata nel tempo per la volontà stessa delle comunità passate. La fisicità, topografica e morfologica, è oggettiva e il fondamento ineludibile dell’interpretazione progettuale anche quando essa ne preveda l’oblio. Oppure è proprio nelle regole, nei principi insediativi, negli elementi linguistici ancora potenzialmente attivi del contesto che trova continuità, nella discontinuità del nuovo.
Per l’architetto il contesto è il “luogo” della poiesis, del fare in qualità di soggetto, parte sì della comunità, ma libero di poter esprimere un’interpretazione unica, seppure intelligibile e condivisibile. Il contesto fisico nell’interpretazione del soggetto acquista profondità, diventa cultura, storie e linguaggi, trasforma “le pietre in parole”.
A differenza il programma, nella sua liquidità mondana, si concretizza nelle tecniche ed è parte della sintesi progettuale solo occasionalmente. Il programma è più quantitativo che qualitativo, richiede flessibilità e forse una buona dose d’indeterminazione formale. La soggettività di partenza del programma, volontà della polis, non può determinare la forma in senso ampio e architettonico, se non a rischio di scadere in un funzionalismo anacronistico e, ben presto, come dimostra l’illusione del Moderno, a un’accelerata obsolescenza.
Il progetto è quindi sintesi di due istanze: una atemporale e oggettiva, il contesto; e una contingente, il programma. La prima suggerisce il linguaggio e le regole insediative, la seconda si confronta con la dialettica politica e in continuo divenire sino alla sua proiezione in una forma predefinita dalle istanze del contesto.
Immagine copertina: Alvaro Siza, schizzo del Centro sociale di Malagueira, Portogallo (1997)
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Last modified: 25 Novembre 2024