“The Great Repair”, all’Akademie der Künste di Berlino una Biennale in miniatura
BERLINO. Da tempo le mostre di architettura ci hanno abituato a vedervi esposti sempre meno progetti e sempre più arte, servendosi di un linguaggio ibrido a cavallo tra le varie discipline molto in linea col nostro tempo. Questa all’Akademie der Künste presso la sede occidentale am Hanseatenweg ha tutte le caratteristiche di una biennale in miniatura, tant’è vero che della Biennale delle biennali, la nostra veneziana, è una piccola propaggine. Non solo perché la ricorda in generale, per questa sua precipua capacità di esporre teorie e idee servendosi di tutti i media oggi a disposizione, ma soprattutto in quanto continuazione del concept proposto nell’ultima, appena conclusa, rassegna lagunare “The Laboratory of the Future” curata da Lesley Lokko, nella fattispecie del Padiglione tedesco ai Giardini di Castello.
Presentando la sua Biennale, Lokko ebbe modo di spiegare: “Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo. È stato chiaro fin dal principio che «The Laboratory of the Future» avrebbe adottato come suo gesto essenziale il concetto di cambiamento”. Fermiamoci su questo concetto di cambiamento-gesto essenziale e trasliamolo a Berlino nella mini-(pseudo)biennale presso la AdK, piacevole da visitare, con un paio di azzeccate scelte sceniche, molti progetti su carta, molta teoria, molto Sud Globale, e coniughiamone i verbi nei linguaggi della conservazione in quanto riparazione: abbiamo già posto le basi per comprendere il significato di un titolo – “The Great Repair” – che un po’ ci prende in giro, architetti anzitutto, e poi studiosi della materia; una materia e soprattutto una professione finalmente liberate dalle loro millantate doti messianiche di tautiana memoria e riportate alla dura realtà.
Dunque attenzione: se siete suscettibili al solo sentir parlare di anti-imperialismo, post-colonialismo e migrazioni, forse questa mostra non fa per voi. Per chi invece ha a cuore il presente e il futuro del pianeta, per i professionisti più giovani, niente di meglio di un piccolo viaggio nell’Hansaviertel, sul limitare nord del Tiergarten, passando per la Siegessäule o più velocemente a bordo del S-Bahn, alla scoperta delle iconiche architetture anni ‘50/60 di tutti i più grandi del Novecento e di questa nello specifico di Werner Düttmann, esempio rappresentativo del brutalismo berlinese. Non stiamo sviando dall’argomento: l’edificio di Düttmann non si limita ad ospitare una mostra ma ne è veramente parte integrante, esempio d’intervento secondo la nuova pratica del riparare che “The Great Repair” si propone d’illustrare.
A Berlino, un allargamento all’emergenza climatica
Chi ha potuto visitare il padiglione della Germania nella Biennale 2023 e, ancor prima, la sua versione per la manifestazione artistica del 2022 diretta da Cecilia Alemani, ha già capito forse di cosa si parla. L’installazione per la rassegna di architettura che annoverava nel suo team curatoriale “ARCH+” (trimestrale indipendente di architettura, urbanistica e design la cui casa editrice ha sede a Berlino), Summacumfemmer Architekten e Büro Juliane Greb, era dedicata ai temi della cura, della riparazione e della manutenzione: realizzata interamente con materiale di scarto della Biennale Arte 2022, faceva del padiglione tedesco un’infrastruttura produttiva atta a promuovere principi di riuso e costruzione circolare, indispensabili strumenti di un nuovo modo di fare architettura, garante di una sostenibilità ecologico-ambientale e soprattutto sociale.
Nella mostra berlinese che “ARCH+” ha curato, insieme ad AdK, Politecnico di Zurigo e Università del Lussemburgo, il discorso è stato allargato all’analisi dell’attuale emergenza climatica e delle sue interconnessioni con le crisi sociali del nostro tempo (le migrazioni come fenomeno post-coloniale, la cancellazione degli ecosistemi e delle minoranze), presentando oltre 40 progetti di “riparazione”. Se l’edilizia è responsabile di circa il 38% dei gas serra, dell’impermeabilizzazione, della perdita a livello mondiale di risorse e di diverse specie, la mostra inizia con una semplice affermazione: “Bisogna smettere di demolire gli edifici per sostituirli con nuovi, solo apparentemente sostenibili, e lavorare col preesistente tanto a livello materiale quanto di attori in gioco”.
Conservare l’esistente, un imperativo sociale
Lo stesso modello assodato di architettura sostenibile è oramai superato
: ciò significa che la conservazione degli edifici e delle infrastrutture già esistenti deve diventare, oltre che un compito ecologico per il futuro, un lavoro sociale.
La “grande riparazione” è ovviamente un ossimoro, in quanto vi si scontrano due principi apparentemente contraddittori: da un lato l’ambizione rivoluzionaria a un cambiamento radicale del sistema, caratteristica delle grandi soluzioni, dall’altra l’atto evolutivo della riparazione.
Nella catalogo della mostra, la filosofa Eva von Redecker spiega: “Attualmente ci troviamo di fronte a un bisogno di trasformazione così immenso che sarebbe del tutto assurdo escludere il termine massimo di cambiamento che abbiamo nel nostro vocabolario politico. Il problema è allora come riempirlo. In realtà io intendo la rivoluzione non tanto come una rottura, quanto come un cambiamento interstiziale, cioè come un cambiamento che crea il nuovo attraverso (e dagli) interstizi del vecchio”. Un approccio riparatore consiste dunque nel lavorare con ciò che è già presente, sia a livello materiale, sia in termini di attori: tutti devono esserne parte perché tutti, dall’addetto alle pulizie all’artigiano manutentore, dal fabbricatore di materiali come da tradizione all’architetta più affermata del momento, sono risorse della comunità, ovvero l’energia culturale che muove il mondo.
Tra tutte le installazioni, gli oggetti e i progetti in mostra commuove, in una fredda saletta appartata, la proiezione di un video dedicato al fu Teatro d’arte drammatica di Mariupol: raso al suolo il 16 marzo scorso dai bombardamenti russi con le oltre 600 persone che vi avevano cercato rifugio, è stato ricostruito con l’aiuto di pochi sopravvissuti con rendering che oltre a restituirgli la forma che aveva da circa 200 anni, ne riportano l’esatta ri-collocazione degli spazi, il loro coatto riattamento a rifugio per donne a bambini che per lunghi giorni vi avevano cercato invano riparo.
Immagine di copertina: © Francesca Petretto
The Great Repair
14 ottobre 2023-14 gennaio 2024
Akademie der Künste, Berlino
Team curatoriale: Florian Hertweck (Università del Lussemburgo); Christian Hiller (ARCH+); Felix Hofmann (ARCH+); Markus Krieger (“Arch+” e Università di Zurigo); Marija Marić (Università del Lussemburgo); Alex Nimmer (“ARCH+” e Università HafenCity di Amburgo); Anh-Linh Ngo (“ARCH+” e membro dell’Accademia delle arti di Berlino); Milica Topalović è docente straordinaria di Architettura e pianificazione territoriale al Dipartimento di Architettura dell’ETH di Zurigo; Nazlı Tümerdem (ETH Zurigo)
adk.de
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berlino , Biennale Venezia 2023 , mostre , recupero
Last modified: 29 Novembre 2023