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Francesca PetrettoWritten by: Città e Territorio

Ritratti di città. Eisenhüttenstadt: delle ferriere, o del fallimento dell’utopia socialista

Ritratti di città. Eisenhüttenstadt: delle ferriere, o del fallimento dell’utopia socialista

La parabola della città della DDR nata a tavolino nel 1950 e oggi alla ricerca d’un rilancio oltre la musealizzazione

 

Prologo

Vale senza dubbio la pena visitare la cittadina del Brandeburgo sul confine orientale tedesco con la Polonia, poco meno di due ore d’auto da Berlino, come fanno da una decina d’anni appassionati di architettura di tutto il mondo. L’attore americano Tom Hanks sarebbe la causa scatenante del piccolo miracolo turistico in corso ad “Iron Hut City”, come l’ha impropriamente ribattezzata, ospite al David Letterman Show, affascinato dalle sue architetture melò.

Noi ci sentiamo piuttosto come delle esploratrici su un disabitato Pianeta rosso di bradburiana memoria, alla ricerca di tracce di vite scomparse, tra edifici abbandonati, immerse nel silenzio innaturale di una necropoli moderna dalle belle, ripulite forme. Ogni tanto ci capita d’incontrare qualche ombra, un bambino solitario che fissa il suo smartphone, una ragazzina che urla la sua rabbia al silenzio che regna sovrano. In fondo, proprio quando Ray Bradbury dava alle stampe le sue Cronache marziane, nel 1950, a Berlino Est la SED decideva a tavolino la nascita dell’ibrido città-fabbrica EKO, EisenhüttenKombinatOst (Combinazione di ferriere est), l’utopia socialista fattasi architettura, prototipo per molti altri a venire.

Nella povertà desolante che in queste lande seguì alla seconda guerra mondiale, la produzione spinta al parossismo dell’industria pesante della Germania Est significò anzitutto baracche per operai costretti al lavoro massacrante in fabbrica; poi nacquero le città modello come Eisenhüttenstadt che, comunque la si guardi oggi, pare impossibile sia stata viva e brulicante di giovani famiglie di pionieri della DDR. Un universo parallelo al nostro occidentale che la giornalista e autrice Sabine Rennefanz (1974), qui cresciuta, ben racconta nel suo Eisenkinder. Die stille Wut der Wendegeneration (I figli del ferro. La rabbia silenziosa della generazione della Wende), con protagonista la sua generazione perduta, ritrovatasi nel giro di una notte senza certezze né patria e vittima di una rabbia subliminale, sempre pronta ad esplodere. Ideale completamento del suo libro, e più nel nostro ambito, è la guida di arte ed architettura di Eisenhüttenstadt (DOM publisher) dell’architetto e fotografo Martin Maleschka (1982), indigeno doc: la dichiarazione d’amore d’un figliol prodigo alla propria casa ritrovata.

 

Architettura e urbanistica: antefatto

Poco a sud della seconda Francoforte tedesca, quella Frankfurt am Oder che di là dal fiume-frontiera cambia nome nel polacco Słubice, viene inaugurato nell’agosto 1950 il cantiere della nascitura EKO. La giovane DDR è ottimista e prodiga d’idee progressiste ma dispone di assai scarse risorse per poterle realizzare. Per esempio, ha bisogno di un’industria pesante autosufficiente in grado di competere con l’antagonista occidentale della Ruhr e di primeggiare sulle omologhe nei territori del blocco comunista.

La decisione di costruire un grande impianto in quest’area del Brandeburgo è strategica: in una terra ricca di lignite, usufruendo dell’Oder quale via di trasporto naturale, “si produrrà dal minerale sovietico e dal carbone polacco l’acciaio tedesco della pace” – così scrivono i manifesti e i giornali grondanti propaganda in tutto l’Est Europa. Il Partito promette lavoro e casa a tutti coloro che si mettono al servizio dell’ideale socialista e l’iniziativa riscuote da subito grande successo: molti disperati reduci arrivano da ogni angolo della nazione, desiderosi di rifarsi una vita. Lavoreranno nella “fabbrica della pace”, esemplare scintilla del progresso che accenderà infinite altre fornaci nei territori dell’est.

I suoi tempi di realizzazione sono rapidissimi: 6 altiforni costruiti tra 1951 e 1955. Non altrettanto si può dire della città promessa agli operai, a lungo costretti a vivere in baracche di fortuna. Le cose cambiano quando il segretario della SED Walter Ulbricht comprende l’incredibile potenziale di quella che potrebbe diventare la “prima città socialista della Germania”, facendosi convincere da un vecchio nazista (finto) pentito, l’architetto Kurt Walter Leucht, a realizzare la “migliore di tutte le città, con uno stretto legame con la fabbrica” che per 8 anni (1953-61) si chiamerà Stalinstadt e poi, coerentemente all’opera di de-stalinizzazione portata avanti da Nikita Krusciov, per sempre, Eisenhüttenstadt, la città delle ferriere.

 

La costruzione della città, magistrale e complessi abitativi I-VII

Convenzionalmente lo sviluppo architettonico-urbano viene descritto per blocchi: 7 negli anni hanno scandito la cronologia della città socialista dal concepimento alla sua dipartita, con la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie (1989-90).

Tutto ha principio col disegno del cardo romano, la cosiddetta Magistrale: un asse curvilineo che idealmente e fisicamente collega la grande fabbrica a nord e la piazza centrale del Municipio a sud. Snodo fondamentale di traffico e perfetta come sfondo alle parate militari e di Partito, l’ex Leninallee (oggi Lindenallee) ospita alcune notevoli architetture pubbliche oggi pressoché abbandonate, come l’Autopavillon IFA (1963), la Möbelkaufhaus (1960-61), il Lindenzentrum (1958-60), il Friedrich-Wolf-Theater (1953-54), l’Hotel Lunik (1956-63), la Zentraler Platz col Rathaus (1954-58), e tre Plattenbauten di prima generazione.

 

Parallelamente s’iniziano a costruire i diversi complessi residenziali, partendo dall’area centrale e spostandosi verso sud-est: i primi tre Wohnkomplexe (WK) vengono progettati dal team dell’architetto capo Leucht a cui verrà affiancato e poi sostituito, a partire dal IV e fino al VII, il più giovane e convinto socialista Herbert Härtel.

L’avvicendamento dei due è dovuto tanto a motivi politico-ideologici quanto di pratica professionale. Leucht, come raccontano le sue architetture, non rinnegherà mai veramente il suo primo credo politico né lo stile pomposo e kitsch che a quello faceva capo, e se nei primi anni troverà un compromesso tra le proprie manie di grandezza e quelle di un Politbüro innamorato di forme monumentali, alla fine sarà costretto a tornare alla sua Dresda, perdendo progressivamente incarichi nella nuova, rigida nomenklatura post 1969. Al contrario Härtel sposerà con convinzione le idee e le contrazioni della nazione capitanata da Erich Honecker, dando loro forma in edifici più rigorosi e modesti, in lastre prefabbricate prodotte in loco, massima espressione del nuovo metodo repressivo tedesco-orientale, conseguente alla costruzione del Muro di Berlino. Per farsi un’idea dell’intero sviluppo dell’edilizia residenziale della DDR, dal 1951 al 1989, ovvero dal classicismo socialista ai Plattenbauten, non si deve far altro che attraversare Eisenhüttenstadt da ovest a est: dai WK I, II e III (1951-67), ove regna sovrano il linguaggio storicista del classicismo made in DDR sviluppatosi in contemporanea sulla Stalinallee di Berlino (dove Leucht è peraltro coinvolto in prima persona), al VII e ultimo, denominato “Seeberge” (1983-89), unicamente in lastre prefabbricate industriali.

 

Anche il centro città, oggi ripulito e in gran parte restaurato con unica eccezione l’abbandonato City Hotel Lunik, racconta con la sua incompiutezza le fasi storiche e stilistiche di Eisenhüttenstadt: la Magistrale appare oggi come un grigio vialone deserto a cui mancano entrambi i punti di arrivo e di connessione con la fabbrica da un lato, col centro abitato dall’altro. Il grandioso cancello che Leucht aveva disegnato per l’ingresso delle acciaierie non viene realizzato, perché non conforme all’ideologia socialista, così come il Rathaus, troppo costoso, rimane su carta, rimpiazzato dall’edificio monumentale della già presente Casa dei partiti convertita a municipio, lasciata sola a fronteggiare il vuoto della piazza centrale.

 

Presente, o del dopo la Wende

Negli anni ottanta i cantieri si moltiplicano, come previsto dal PRG del 1969 che stima una popolazione di 110.000 abitanti per il trentennio a venire. In piena espansione, Eisenhüttenstadt non ha motivo di credere che la crescita si fermerà tanto bruscamente, ma la storia è destinata a cambiare per sempre il 9 novembre 1989: con la caduta del Muro, la DDR si disintegra lasciando nel caos più totale oltre 16,5 milioni di tedeschi dell’est.

Inizia la Wende, la svolta, che per Eisenhüttenstadt significa la fine: la fabbrica chiude 5 altiforni e in pochi mesi 9.000 persone perdono il posto di lavoro; alcuni operai provano ad ovest dove sperimentano baratri di razzismo ed emarginazione, altri si chiudono in casa in preda alla depressione, incapaci di reagire a una rivoluzione pacifica nei modi ma letale per le loro prospettive di vita. Se nel 1989 la popolazione contava circa 52.000 abitanti (oltre 12.000 impiegati nell’acciaieria), nel 2000 il loro numero si riduce a 41.500 e nel novembre 2020 a poco meno di 20.000.

A Hütte, come la chiamano i suoi abitanti, viene appioppato il nomignolo poco lusinghiero di Schrottgorod (La città dei rottami metallici, dal tedesco Schrott, rottame, ferraglia, e dal russo Gorod, città): chi è disposto a viverci ancora?

Nel 1998 viene avviata la demolizione dei primi edifici prefabbricati, spostati i residenti superstiti (tutti over 65) in centro città; nel 2002, come previsto dal programma nazionale Stadtumbau Ost (riqualificazione urbana est), il cui principio guida è demolire la periferia per stabilizzare il centro, viene svuotato e in gran parte demolito il WK VII, poi parte dei V e VI: oltre 6.000 appartamenti vengono tolti dal mercato. Per fortuna nei primi quattro complessi residenziali le demolizioni sono ridotte al minimo perché il centro città è dal 1977 monumento nazionale e dunque sotto tutela: coi suoi 100 ettari di estensione, Eisenhüttenstadt è il più grande della Germania.

 

Futuro, riqualificazione e ripopolamento

Per quanto il turismo inizi a dare i suoi frutti e i più recenti restauri degli edifici pubblici le abbiano reso un aspetto più vivo e colorato, la sola musealizzazione ipotizzata da alcuni ottimisti e nostalgici non salverà la città: tutte le case devono essere ristrutturate e rimodernate, per renderle adatte all’età dei nuovi inquilini, gli sfollati delle periferie. Per assurdo, questi lavori non trovano un sostegno economico nei fondi del programma federale “Protezione dei monumenti urbani” perché Eisenhüttenstadt è troppo giovane per ottenerli.

La città deve inventarsi qualcosa di nuovo per salvare le abitazioni e ben 13 istituzioni tra educative, culturali e sanitarie. C’è chi, come il citato Maleschka, cerca di coinvolgere amici e conoscenti nel recupero di un luogo iconico come la Platz der Jugend e chi, organizzatosi in collettivi e associazioni civiche, mira a salvare dalla demolizione edifici esemplari come l’abbandonato Hotel Lunik. A lungo qui ha regnato, come negli altri Länder orientali, la depressione. Tuttavia pare che, dopo decenni di rassegnazione, qualcosa stia cambiando e che le persone siano di nuovo alla ricerca di opportunità per riplasmare la propria città: molte giovani famiglie hanno scelto Eisenhüttenstadt, impossibilitate a permettersi un appartamento nell’esoso mercato immobiliare berlinese; le aree demolite sono state dichiarate terreni edificabili a basso costo e in molti vi costruiscono case unifamiliari all’americana.

Hütte può essere per la seconda volta nella storia una “città modello”, ma stavolta la parola chiave è “riconversione” o, come è stato detto, “riqualificazione orientata al futuro di un sito industriale pesante in fase di contrazione”. L’enormità di questo compito è stata compresa da tempo qui in città. Tuttavia, manca ancora la panacea per una sua riorganizzazione positiva e soprattutto ottimista.

Immagine di copertina: © Daniela Völkel-Hundt

 

A stampa

  • Martin Maleschka, Eisenhüttenstadt (Architekturführer) DOM publishers, Berlino, 2021
  • Sabine Rennefanz, Eisenkinder: Die stille Wut der Wendegeneration, btb, Monaco di Baviera, 2012
  • Ray Bradbury, Cronache Marziane (The Martian Chronicles, 1950), ed. italiana con traduzione di Giorgio Monicelli, collana Urania Collezione n° 3, Arnoldo Mondadori Editore, 2003

Articoli online

Colonna sonora

  • Acht Eimer Hühnerherzen, Eisenhüttenstadt, Destiny Records (2) – Destiny-178CD (marzo 2018)

 

Autore

  • Francesca Petretto

    Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell'architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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Last modified: 17 Luglio 2023