Al Teatro dell’Architettura di Mendrisio una mostra sulle ricerche di Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen. L’allestimento e le implicazioni teoretiche
MENDRISIO (SVIZZERA). La mostra si propone come un’esplorazione, o “folle ricerca” come recita il titolo (“What Mad Pursuit”, a cura di Francesco Zanot), dei rapporti tra fotografia e architettura. Progettata in modo da contestualizzare le opere nei difficili spazi del Teatro dell’architettura, la mostra presenta circa 50 lavori di tre fotografi del Nord Europa: l’austriaca Aglaia Konrad, il berlinese Armin Linke, l’olandese Bas Princen, accomunati da un uso dello strumento fotografico che rifugge intenzionalmente dalla funzione documentaria per esaltarne piuttosto la valenza di arte visuale autonoma. In parole semplificate, ciò significa che la fotografia rivendica uno statuto “pittorico”, d’immagine in sé, di rappresentazione intesa persino come concretezza plastica (tanto che, nella grande sala al pianoterra, Konrad ha fatto appendere una grossa collana di ready made metallici).
Strade diverse di autonomia visuale e plastica
L’autonomia visuale e plastica
della fotografia viene concordemente proclamata dai tre fotografi, per quanto seguendo strade diverse.
Per Princen tutte le fotografie hanno la grandezza di pale d’altare e sono incorniciate come una pittura classica i cui soggetti artistici, tratti da fonti a loro volta artistiche e fotografati ingranditi con effetti materici in taluni dettagli, diventano nuovi quadri di quadri precedenti, nuove immagini d’immagini pregresse.
Per Konrad (austriaca che lavora a Bruxelles) ritroviamo la stessa grande dimensione da pala d’altare delle fotografie, ma qui i dettagli architettonici fotografati e ingranditi vengono incollati direttamente sulle pareti curve del Teatro dell’architettura, come a rimarcare una continuità materica tra cemento dello spazio espositivo e cemento e pietre dei soggetti raffigurati.
Infine, Linke (tedesco ma milanese di nascita) propone misure più ridotte dei soggetti architettonici e ambientali scelti, affidando alla modalità espositiva la declinazione plastica autonoma delle fotografie, appese staccate dalla parete e poste a diversi livelli e profondità, così da contraddire la bidimensionalità dell’immagine.
I riferimenti all’arte tradizionalmente pittorica di questi fotografi sembrano far riemergere, dietro le loro operazioni estetiche, momenti e dispositivi specifici dell’arte visiva del passato. In Princen vediamo riaffiorare taluni elementi dell’ossessiva pittura ottica dell’Olanda del Seicento (quella magistralmente studiata da Svetlana Alpers in Arte del descrivere). Nella Konrad viene vagheggiata una possibile identificazione materica tra il soggetto architettonico minerale e la sua immagine cartacea (in una sorta di estensione dell’arte concreta delle prime avanguardie novecentesche praticata per esempio attraverso il collage di materiali differenti presi dalla realtà. E anche Linke lo vediamo toccato da certe onde lunghe delle avanguardie, ma qui sotto forma di un neoplasticismo alla Mondrian o alla Rietveld, per i quali il piano bidimensionale dell’immagine era sempre un piano combinatorio spaziale e costruttivo di estensione plastica, quindi architettonica.
Quale ruolo per l’architettura nei lavori di arte visuale
Ma, appunto, l’arte dell’architettura che ruolo ricopre infine in questi lavori di arte visuale? I soggetti architettonici occupano la gran parte delle immagini, ma in sostanza vengono assunti quali generici pretesti del mondo costruito.
L’architettura, per come la intendiamo normalmente nei suoi valori disciplinari, qui non ha un’importanza primaria, assoggettata com’è al primato dell’autonomia visuale, concreta, oggettuale dell’immagine che tutti e tre i fotografi, e naturalmente il curatore, reclamano come principio ispiratore della mostra, anche ricorrendo a teoresi di stampo germanico cui continuiamo a dare credito illimitato (come per esempio nel concetto di valore espositivo contrapposto a documentario della fotografia quale riproposta dell’infausto binomio kantiano che contrappone finalità e scopo).
Fatichiamo in tal senso a sottoscrivere anche la giustificazione della mostra quale momento di “intersezione” tra diversi generi artistici, come vorrebbe indicare lo stesso titolo: “What Mad Pursuit”. L’enigmatico titolo, che tradotto suona come “Quale folle ricerca”, è ripreso da un saggio del neuroscienziato britannico Francis Crick, in cui sostiene che l’ibridazione o contaminazione tra discipline (e arti) fa bene alla ricerca.
È, questa, una visione filosofica e artistica in realtà molto diffusa e praticata nell’ultimo secolo, e su cui forse non conviene continuare a insistere facendone un grimaldello che apre tutte le porte. Peraltro, What Mad Pursuit?, questa volta con il punto interrogativo, è formulazione che ritroviamo nei versi dell’Ode su un’urna greca del poeta romantico inglese John Keats (certamente noto al connazionale neuroscienziato) che, per quanto è possibile capire data l’ambiguità semantica propria della poesia, non evoca alcuna ibridazione positiva ma una confusione interrogativa.
Immagine di copertina: © Enrico Cano
“What Mad Pursuit. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princen”
7 aprile-22 ottobre 2023
Teatro dell’architettura, Accademia di architettura dell’Università della Svizzera Italiana
A cura di Francesco Zanot
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allestimenti , fotografia , mostre , svizzera
Last modified: 19 Aprile 2023