Bilancio a 10 anni dalla piena operatività di un’opera alpina che ha lasciato il segno
Il passato
Più d’un lettore potrebbe storcere il naso, snobbando l’argomento e riducendolo al mero interesse di chi scrive e degli appassionati di montagna e alpinismo. Eppure, proprio nel novembre 2011, lo sbalzo del “tubo”, “cannocchiale”, “fusoliera”, “missile” o “astronave”, che dir si voglia, guadagnava la copertina di «Domus». Poi dilagò mediaticamente a scala planetaria su magazine, rotocalchi, siti web d’ogni genere, dalla tecnologia al lifestyle. Per non parlare dei social, vista la fotogenia dell’installazione (per tutti, valga questo video; sofferenti di vertigini astenersi).
Sì, perché il bivacco Giusto Gervasutti, installato per volontà della Sottosezione universitaria del Club alpino italiano (SUCAI) di Torino al posto del vecchio ricovero ormai diruto, su uno scenografico spalto, a quota 2835 metri, al cospetto della parete Est delle Grandes Jorasses, nel gruppo del Monte Bianco (Courmayeur, Aosta), ha letteralmente “bucato lo schermo”: dalla cerchia dei frequentatori montani a platee ben più allargate.
La prefabbricazione 100% a secco off site (in un capannone di Torino) ne permise la posa in opera in un’unica giornata (ottobre 2011): 4 moduli anulari a sezione ellittica in sandwich composito di vetroresina e isolante, già completi di arredi, portati in quota con altrettante rotazioni di elicottero e fissati su una trave sorretta da 6 “zampe” metalliche ancorate alla roccia; per finire, il tamponamento della cosiddetta “palpebra”, con il vetro a tutta parete.
Tra le numerose richieste di replica, si concretizzò quella del Club alpino russo, due anni dopo, per collocare ben tre unità (più grandi, ciascuna costituita di svariati moduli) a 4000 metri, in rimpiazzo del rifugio andato bruciato sulla via di salita al Monte Elbrus.
Il presente
Un mese fa, con le prime nevicate autunnali, siamo saliti al bivacco, pernottandovi, onde “tastargli il polso”. Con la scocca linda e immacolata, il manufatto sembra appena installato. Pochi i segni d’usura interna: eccetto qualche serraggio e qualche braccetto degli oblò difettoso, l’unico vero default è il computer di bordo che non dà segni di vita (ma, anche se è l’aspetto più evidente d’un approccio “smart”, ci sembra anche quello meno indispensabile). Quasi nulla da eccepire sul comfort: se è pur vero che non si parlava di temperature rigide (minime notturne poco sotto lo zero), grazie anche alla presenza contemporanea di 13 ospiti, all’interno nella zona giorno si sfioravano i 18°. Relativamente più fredda e umida la parte notte (12 comodi posti letto), dove tuttavia si è potuto agevolmente riposare con indumenti leggeri e un paio di coperte. Bene l’impianto elettrico, che alimenta la piastra per cucinare le vivande e la striscia di luci a Led; il tutto, messo a dura prova da una serata di libagioni e socialità protrattasi ben oltre i tempi e i modi di un’ordinaria fruizione alpinistica. Solo al mattino le batterie necessitavano della ricarica da parte dei pannelli fotovoltaici installati sia in copertura, sia sulla parete rocciosa a fianco.
Ma, allargando il discorso al panorama progettuale dell’edilizia estrema d’alta quota, possiamo davvero affermare che, a distanza d’un decennio, il Gervasutti ha fatto epoca. Ha infatti definitivamente mandato in pensione il glorioso modello di bivacco prefabbricato “tipo Apollonio” a 9 posti letto, messo a punto negli anni ‘40 e, anche grazie al brevetto della Fondazione Berti, da allora utilizzato quasi ovunque sulle Alpi (fatte salve poche quanto interessanti sperimentazioni tipologico-costruttive a cavallo degli anni ‘70 tra Italia, Svizzera e Austria). Il Gervasutti ha radicalmente mutato la tipologia edilizia, scardinando la logica della quadrangolare scatola metallica chiusa in favore di un marcato sviluppo longitudinale, con sfondamento visuale assiale in funzione panoramica sulla vallata d’accesso.
Seppure non sia stato adottato dal CAI come prototipo per i ricoveri incustoditi d’alta quota, esso ha ispirato numerose realizzazioni successive: dal pluripremiato bivacco fratelli Fanton alle Marmarole, in Cadore (Belluno, 2800 m), firmato dal blasonato studio Demogo (2014-21), al Matteo Corradini alla Dormillouse, in Valle di Susa (Torino, 2908 m), su progetto di Andrea Cassi e Michele Versaci (2019), al Luca Pasqualetti al Morion, in Valpelline (Aosta, 3282 m), di Roberto Dini e Stefano Girodo (2016-17), al Claudio Brédy nella Comba di Vertosan (Aosta, 2528 m), di BCW Collective (2020-21).
Parallelamente, l’intervento ha segnato l’epifania dei torinesi Leapfactory, architetti riposizionatisi come azienda fornitrice di tecnologie e prodotti per l’industrializzazione edilizia: dall’esperienza residenziale delle Leaphome (quasi un meccano) a quella dei cantieri, in progress, nel campus Orsolina28, Scuola di danza e Centro internazionale di formazione e sviluppo della creatività voluto dall’imprenditore Michele Denegri nelle colline del Monferrato a Moncalvo (Asti).
Il futuro
Qualsiasi considerazione sull’edilizia in alta quota non può prescindere dal tema del cambiamento climatico. La salita al bivacco Gervasutti fa toccare con mano i drammatici mutamenti avvenuti soprattutto nell’ultimo decennio, con il limitrofo ghiacciaio del Fréboudze crivellato di seracchi e crepacci come una gruviera, grigiastro e nero perché ricoperto di pietrisco, terra e scariche di pietre, nonché drasticamente ridimensionato (al punto che il percorso di accesso neppure più lo intercetta).
La montagna mostra chiari segnali d’insofferenza, con le masse nevose sempre più instabili (la Marmolada è solo il caso drammaticamente più noto) e con la coltre perennemente gelata di terreno (il permafrost) che si assottiglia sempre più, ritirandosi in profondità. Fenomeno sempre esistito, quello dei crolli di pietre o ghiaccio, che ora però ricorre con un ritmo mai registrato prima. Sempre nel massiccio del Bianco, a fine agosto il cedimento d’un intero costone si è portato via il bivacco Alberico-Borgna presso il Col de la Fourche (3682 m). Occorre dunque interrogarsi seriamente sugli interventi infrastrutturali in alta montagna, evitando in linea di principio nuove costruzioni, e pianificando attentamente anche la manutenzione dell’esistente, al fine di recepire i segnali che il pianeta ci manda.
Infine, per le nostre realtà urbane, quanto al futuro dell’edilizia industrializzata, a catalogo e di qualità, sembra che la strada dell’assemblaggio a secco di prodotti prefabbricati su misura, anche per cantieri di grosse dimensioni, per opere multipiano e dalle molteplici destinazioni d’uso, sia un’opzione non più così remota.
Immagine di copertina: © Dario Castellino
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alpi , architettura alpina , montagna , prefabbricazione , Ri_visitati
Last modified: 28 Dicembre 2022