Intervista al presidente dell’organizzazione internazionale “The Blue Shield”, che difende i patrimoni culturali in caso di conflitti, disastri naturali o antropici
Peter G. Stone, attuale presidente dell’organizzazione internazionale “The Blue Shield”, è titolare della Cattedra Unesco in Protezione del patrimonio culturale e della pace presso l’Università di Newcastle. È stato consulente del Ministro della Difesa del Regno Unito per l’identificazione e la protezione del patrimonio culturale archeologico in Iraq. Per la sua carriera e i meriti nel campo della formazione al patrimonio culturale, nel 2011 è stato insignito del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.
The “Blue Shield” opera dal 1996 per la protezione del patrimonio culturale nei conflitti armati o in seguito a disastri naturali e antropici. Qual è il principio cardine del suo operare?
“Dovunque si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”, scriveva il poeta tedesco Heinrich Heine. Altrettanto in Cina, già nel VI secolo a.C., si deplorava la distruzione del patrimonio culturale nemico per evitare nuovi conflitti, mossi dalla vendetta. Questa consapevolezza che ha diverse attestazioni durante la storia, è sfociata nelle convenzioni internazionali che seguirono i conflitti mondiali dello scorso secolo. Il benessere di una comunità è infatti strettamente connesso a quei beni culturali materiali e immateriali, ai quali ciascun individuo vincola un senso di appartenenza, capace di conferire dignità e unitarietà alla comunità stessa. Eradicare la memoria di un luogo, le tracce di un monumento storico o le tradizioni immateriali significa di riflesso minare l’identità di quel popolo. È stato evidente in molti conflitti, anche recenti: quando particolari gruppi etnici o popolazioni sono colpite, lo sono anche i patrimoni culturali con i quali queste s’identificano. Nell’ex Jugoslavia, paesaggi di morte erano i medesimi per uomini e monumenti: si sono trovate fosse comuni riempite non di terra, ma dei detriti dei luoghi di culto – una moschea in questo caso – perché né dell’una né degli altri si ritrovasse traccia. Non credo possa esistere un’immagine più tragica e più evidente circa il rapporto tra una comunità e i propri patrimoni culturali.
Lo scopo del lavoro di “The Blue Shield” è sintetizzabile in una forma di protezione che vede inscindibili le persone dai beni culturali, nell’impossibilità di tutelare le une laddove gli altri fossero distrutti. Agendo a livello nazionale e internazionale, la nostra organizzazione si propone di diffondere questo approccio unitario alla tutela e di promuovere contesti di pace attraverso l’educazione, la scienza e la cultura.
La protezione del patrimonio culturale può essere letta come responsabilità unica degli enti di tutela, o come occasione per promuovere dialogo e cooperazione. In che modo “The Blue Shield” s’interfaccia con le altre realtà?
Un’organizzazione quale “The Blue Shield” era stata immaginata, ma non realizzata, già da coloro che parteciparono nel 1954 alla Convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di guerra. Erano uomini che avevano visto almeno un conflitto mondiale, molti addirittura due. Da quella comunità internazionale era sorta l’Unesco, per garantire mediante la cultura e la scienza un ambiente di pace. Nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo vedeva riconosciuti anche il libero accesso alla cultura e ai siti culturali, e, nello stesso anno, la Convenzione sul Genocidio ammetteva anche la forma del genocidio culturale, per contrastare la distruzione del patrimonio culturale dei popoli. Da qui all’effettiva fondazione di “The Blue Shield” si deve attendere il 1996. Oggi è un organismo internazionale riconosciuto di difesa dei patrimoni culturali in caso di conflitto, calamità naturali o disastri operati dall’uomo.
Il patrimonio culturale presenta un alto grado di complessità, raccogliendo al suo interno una pluralità di elementi eterogenei. Quali strategie sono adottate?
Nel vasto insieme sintetizzato con cultural heritage trovano posto piccoli oggetti collezionati in sale museali, archivi e collezioni librarie, singoli monumenti e interi centri storici. Vi è poi il patrimonio intangibile delle tradizioni locali, parole, pattern e colori che acquistano valore solo se messi in relazione con la popolazione che li conosce e li vive. Anche il contesto nel quale essi si collocano è unico, così come lo sono i singoli conflitti e le dinamiche che li generano; è perciò inevitabile che ciascun caso richieda strategie d’intervento dedicate e azioni calibrate. Possono ad esempio rendersi necessari manufatti per la conservazione di opere d’arte o programmi speciali di pianificazione del loro trasferimento. Il patrimonio culturale è tanto vario quanto lo sono le tecniche per tutelarlo. Alla loro base è comunque possibile delineare una strategia comune e preventiva: l’impegno alla diffusione di un’educazione critica che preceda qualsiasi evento drammatico e sappia riconoscere il ruolo del patrimonio culturale prima che questo venga danneggiato o, nel peggiore dei casi, distrutto.
In che modo “The Blue Shield” opera concretamente e come si struttura la sua missione?
Le convenzioni e le leggi internazionali di tutela del patrimonio culturale nascono dalla convinzione che, preso atto dell’inevitabilità di conflitti e disastri, sia possibile tracciare dei limiti che evitino azioni irreparabili in favore di un maggiore dialogo, propedeutico alla riconciliazione. “The Blue Shield” s’inserisce in questo processo, lavorando sia con i paesi che riconoscono i protocolli internazionali sia con quelli che li rifiutano, sensibilizzando al ruolo strategico che la salvaguardia del patrimonio culturale può assumere e rafforzando così le sinergie con i settori d’impegno umanitario e i corpi che diciamo “in uniforme” perché non solo militari, ma anche forza di pace come i caschi blu, la polizia di frontiera, ecc… Naturalmente, perché le missioni svolte nell’urgenza dei conflitti possano rivelarsi efficaci, occorre lavorare in tempo di pace: un ruolo chiave è la sensibilizzazione delle nazioni attraverso workshop e programmi di formazione dedicati. Anche in casi di occupazione militare, la tutela garantita ai patrimoni culturali della parte occupata previene escalation militari, rivoluzioni interne, guerre civili. Allo stesso modo, una partnership continuativa tra i diversi organi di tutela può migliorare la risposta a un evento catastrofico, come è stato per le esplosioni nel porto di Beirut nel 2020.
Vi è una attualità evidente nelle sue parole relative allo scenario europeo, al conflitto in Ucraina e al ruolo simbolico dei patrimoni culturali di origine religiosa…
Tra gli obiettivi di “The Blue Shield” vi è anche una maggiore collaborazione con le comunità e le organizzazioni religiose, quantomeno quelle più diffuse. L’edificio religioso, come testimonia appunto anche l’attuale situazione in Ucraina, è spesso un riferimento per le comunità locali che in esso si rifugiano per trovare una sicurezza non solo fisica ma anche morale e spirituale. Risulta quindi difficile trattare questi beni come fossero, ad esempio, una collezione museale che può essere trasportata in un luogo sicuro e lì protetta e salvaguardata. In questi casi i patrimoni mobili delle chiese devono essere salvaguardati in loco, evitandone lo spostamento, perché la popolazione ad essi si riferisce costantemente. Si rende necessario approfondire insieme alle organizzazioni religiose come tutelare al meglio questa peculiare famiglia di beni.
Narrare i conflitti mediante i processi di salvaguardia o, malauguratamente, di distruzione dei beni culturali, genera inaspettate narrazioni e una nuova comprensione dei conflitti stessi. Storie che dovrebbero essere scritte o comunicate…
Si, ma comunicare le attività di “The Blue Shield” non è facile perché molte di esse sono coperte da riserbo e possono essere annunciate soltanto molto dopo i fatti. Tuttavia, con i suoi 13 comitati nazionali, è indubbio il contributo che la nostra organizzazione sta maturando. Inoltre, se consideriamo i conflitti più recenti, un’attenzione specifica ai beni culturali permette di avviare comparazioni, sviluppare nuove attenzioni e strategie per evitare nuove catastrofi. Assicurare i beni culturali significa assicurare la stabilità delle popolazioni: un crescente numero di studi dimostra come comunità umane che vivono nell’intorno di beni storici, religiosi e identitari raggiungano una più alta qualità di vita di chi vive senza tali riferimenti. In conclusione, per garantire una condizione di pace stabile e sostenibile non si può prescindere dal mutuo rispetto tra i popoli. Tale rispetto si manifesta nella tutela dei relativi patrimoni, che giocano dunque un ruolo fondamentale nel perseguire un disegno globale di pace.
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catastrofi , guerra
Last modified: 28 Giugno 2022