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Davide DeriuWritten by: Forum

Il senso di Richard Rogers per la cityness

Il senso di Richard Rogers per la cityness

Una riflessione sul suo lascito a favore degli ideali di rinascita urbana nel Regno Unito (e nel mondo)

 

Chi è stato a Londra prima del 2003 ricorderà forse una Trafalgar Square congestionata dal traffico, ponti sul Tamigi non proprio agevoli per i pedoni e un lungofiume poco accogliente – perfino nel polo culturale del South Bank. Se altre città europee avevano riscoperto la dimensione della socialità, la capitale britannica da tempo era priva di un proprio governo e, pertanto, di una visione urbanistica. La radicale trasformazione che ha restituito a quei luoghi, e a molti altri, una qualità che li rende oggi attraenti per i residenti come per i turisti, è dovuta in gran parte alla politica di Ken “il Rosso” Livingstone, primo sindaco della Greater London Authority costituita all’alba del millennio; ma anche agli ideali di urbanità sostenuti con vigore da Richard Rogers (1933-2021), che si è spento lo scorso dicembre.

 

Non solo grandi edifici

La stampa britannica ha ricordato i numerosi progetti, incarichi, premi e titoli che ne hanno segnato la lunga carriera. Il nome di Rogers, barone di Riverside e membro per trent’anni della Camera dei lord, è spesso accostato a grandi edifici come aeroporti internazionali, corti di giustizia e torri d’uffici. Nella City si è aggiunto alla sede del Lloyd’s, emblema dell’high-tech anni ’80, il recente Leadenhall Building dove lo studio Rogers Stirk Harbour & Partners (RSHP) ha trasferito la sede. Bersaglio della crociata anti-moderna del principe Carlo d’Inghilterra, Rogers ha strenuamente difeso le sue posizioni moderne – e, verrebbe da dire, repubblicane – nel corso di varie querelle che hanno appassionato l’opinione pubblica. Nel 2009 l’architetto denunciò un abuso di potere quando l’erede al trono, facendo leva sulla famiglia reale del Qatar vicina al committente, fece bloccare il progetto di RSHP per Chelsea Barracks.

È tuttavia l’impegno di Rogers per la rinascita urbana del Regno Unito che oggi ci piace ricordare. Il termine inglese, urban renaissance, si potrebbe anche tradurre in “Rinascimento”: e qui emergono le radici dell’architetto, nato a Firenze da famiglia inglese trapiantata in Italia. Il concetto di cityness riassume il suo intento di mettere in valore lo spazio pubblico in quanto linfa vitale della città: un fermento civico che richiede attente cure progettuali a tre dimensioni.

 

Il valore della collaborazione

Rogers fu ispirato dall’omonimo cugino Ernesto Nathan, il cui studio milanese (BBPR) visitò nel 1953. Nonostante la scarsa propensione per il disegno, il giovane Richard apprese il valore della collaborazione, che divenne centrale nella sua prassi. Il momento storico è significativo. L’anno prima, Ernesto aveva curato gli atti dell’ottavo congresso CIAM tenuto a Hoddesdon, poco fuori Londra: in apertura del libro, una famosa prospettiva di piazza San Marco a Venezia brulicante di persone ed attività ne riassumeva il tema – il cuore della città.

Il congresso si svolse in concomitanza con il Festival of Britain del 1951, l’evento che sancì la svolta moderna dell’architettura britannica. Strutture leggere, sculture avveniristiche e passerelle sospese lungo il South Bank incarnavano l’ottimismo della ricostruzione postbellica e i principi democratici dell’incipiente welfare state. L’esposizione venne salutata come un tonico per la nazione. Appena diciottenne, Rogers ne rimase folgorato.

 

La responsabilità sociale dell’architetto

È una chiave di lettura per riflettere sull’operato multiforme di Rogers, peraltro inscindibile dall’estetica industriale dei suoi edifici.

Anche il progetto che gli conferì un precoce successo, vincitore a sorpresa con Renzo Piano del concorso indetto nel 1971 per il Centro Pompidou a Parigi (fra 681 proposte in lizza), comprende una piazza antistante l’edificio che, col passare degli anni, gli sembrava essere la parte più riuscita. Non a caso, durante la costruzione del Beaubourg, per cinque anni Rogers prese casa in Place des Vosges.

La città era per lui innanzitutto luogo d’incontro fra persone. Ed anche in una cultura urbanistica come quella anglosassone, tradizionalmente aliena dalla concezione europea di piazza, cercò d’innestare i valori che ne sono alla base. È un ethos che infonde anche molti dei suoi edifici, come l’Assemblea nazionale gallese a Cardiff (in cui spazio interno ed esterno sono idealmente connessi) fino al Millennium Dome a Greenwich, perno delle celebrazioni del 2000, che dopo un lungo letargo è stato riqualificato come arena per concerti.

 

Lo sguardo d’insieme sulla città

Era del resto già emerso nel progetto utopico del 1986, London as it could be, che contrapponeva allo sviluppo urbano governato dal mercato una visione aperta e democratica coniugata a un linguaggio risolutamente high-tech. Ma è solo un decennio dopo, con l’ascesa del New Labour al governo, che il momento diventa propizio. La scommessa del cambiamento si gioca nella difficile mediazione con il potere, e Rogers raccoglie la sfida.

Al suo libro-manifesto Cities for a Small Planet (1997) segue la pubblicazione di Towards an Urban Renaissance (1999), scaturito dal suo incarico presso la Urban Task Force del governo. Livingstone lo nomina in seguito a capo dell’agenzia per l’architettura e l’urbanistica della capitale. La loro alleanza incarna un’idea di città compatta e sostenibile in cui si moltiplicano i progetti locali per promuovere la qualità dello spazio pubblico con zone pedonali e percorsi ciclabili.

Fortemente ancorato ai suoi natali, Rogers spesso evocava il modello di città-stato rinascimentale. A tal punto era legato all’idea di “piazza” da chiamare così anche lo spazio aperto della sua dimora a Chelsea, ricavata dalla fusione di due case a schiera d’epoca georgiana, perenne luogo d’incontri e discussioni.

Se oggi ci si può godere un’amena passeggiata dal South Bank a Trafalgar Square, questo lo si deve anche alla sua ostinata visione. Segno dei tempi, la recente scomparsa è avvenuta nel mezzo di una pandemia che ha svuotato le piazze e separato le persone, quando il Regno Unito si allontana dall’Europa e il fervore umanista della cityness a lui cara è sempre più eroso da logiche di mercato e da spinte separatiste.

L’idea di spazio pubblico come valore e, a un tempo, come diritto, ha radici profonde ma, ci ricorda la parabola di Rogers, dev’essere coltivata e costantemente rinnovata.

Autore

  • Davide Deriu

    Vive a Londra, dove è Reader in storia e teorie dell’architettura presso l’Università di Westminster. Formatosi al Politecnico di Torino e alla Bartlett (UCL), si occupa di culture della rappresentazione a diverse scale, dal modello alla città. Ha contribuito a riviste come The Journal of Architecture, Architectural Theory Review, Abitare e Vesper, ed è stato redattore di Architectural Histories. Fra le mostre che ha curato: "Modernism in Miniature: Points of View" al Centro Canadese d’Architettura. È stato Fellow della British Academy, Colin Rowe lecturer al RIBA e visiting professor all’Università Iuav di Venezia. Collabora con "Il Giornale dell’architettura" dalla sua fondazione

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Last modified: 26 Gennaio 2022