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A proposito della mostra dantesca a Urbino: Mussolini lasciamolo fuori dalla porta

A proposito della mostra dantesca a Urbino: Mussolini lasciamolo fuori dalla porta

Luigi Gallo, co-curatore della mostra “Città di Dio, città degli uomini, Architetture dantesche e utopie urbane”, replica alla nostra recensione

 

Mi permetto di scrivere riguardo alla recensione della mostra “Città di Dio, città degli uomini, Architetture dantesche e utopie urbane”, attualmente presentata alla Galleria Nazionale delle Marche che dirigo da un anno e mezzo. Si tratta di un diritto di replica di cui mi avvalgo in quanto credo nel lavoro svolto.

Spiace, nel leggere l’articolo, riscontrare una linea di interpretazione pretestuosa che lega a suo dire le straordinarie tavole di Lingeri e Terragni ad un confronto, mai nemmeno lontanamente immaginato, fra Federico da Montefeltro e Mussolini. Debbo dire anzi che sconforta come in una rivista di architettura aggiornata la critica al Razionalismo sia ancorata saldamente a schemi interpretativi obsoleti. Da diversi decenni, infatti, si è completamente superata la chiave di lettura politica dell’arte, altrimenti giudicheremmo di regime anche i grandi capolavori di Luigi Moretti, Adalberto Libera, Le Corbusier, solo per citare alcuni grandi maestri. Sarebbe come dire, con estrema povertà di pensiero, che Bramante, Bernini, Mansart o Ledoux sono di regime, il che riduce la creazione ad una generica volontà di rappresentazione del potere.

Non è certo il caso del progetto del Danteum che, al contrario, inserisce le celebrazioni di Dante nel cuore pulsante della tradizione archeologica romana, radicandolo quindi nelle origini della nostra cultura nazionale (come è ben visibile in diverse tavole in cui il monumento è messo in relazione con le rovine del Foro Romano). E mi si perdoni la spregiudicatezza: nessuno negherà che quelle rovine sono ancora oggi il simbolo di una nazione che intorno alla loro storia, al loro studio, alla loro reinterpretazione ha costruito un progetto culturale che, sin dal Rinascimento (parola che va declinata al plurale come insegna Erwin Panofsky), ha recuperato il valore del pensiero individuale intimamente legato allo sviluppo della cultura, della lingua, dell’arte. E d’altronde, la prima, celebre, metafora con cui si esprime il rapporto di dipendenza della cultura moderna nei confronti dell’antica risale al 1159, quando Giovanni di Salisbury, attribuendone la paternità al suo maestro, scrive nel Metalogicon (III, 4): “Siamo nani su spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti“. La massima è ancora oggi valida e potente nel guidare l’analisi sulla contemporaneità.

Nella mostra, infatti, il confronto con la Città ideale è legato alla struttura compositiva delle opere (il rettangolo aureo) ed al pensiero complessivo sul concetto di città, così intimamente legato al pensiero dantesco: il grande poeta architetto. Si tratta di una riflessione sulle radici comuni della cultura classica e l’eternarsi nel presente dei valori assoluti del Rinascimento: l’ombra lunga del Fascismo davvero è fuori luogo, e c’è da chiedersi se nella recensione non ci sia una volontà di portare il discorso su un terreno ambiguo e scivoloso, del tutto fuori contesto. Accettiamo le critiche certamente, ma Mussolini lasciamolo fuori dalla porta perché davvero non c’entra niente.

Aggiungo inoltre che le magnifiche tavole non vengono dalla Triennale (solo poche infatti erano lì esposte, prestate gentilmente con le cornici pagate con i fondi del nostro museo), ma al contrario sono esposte in galleria per la prima volta nella loro interezza. Grazie al generoso prestito dell’Archivio Lingeri, infatti, le abbiamo recuperate dai contenitori nelle quali giacevano dal 1938. Si tratta di una grande occasione per osservare da vicino il processo creativo dei progettisti, elaborato in 22 tavole di una qualità grafica magnifica e che per motivi conservativi non saranno esposte per lungo tempo dopo la mostra a Urbino. Debbo comprendere dal vostro articolo che la giornalista non ha goduto del privilegio di osservare con calma l’eccellenza delle tavole acquarellate e con i collage di Mario Sironi (o forse anche il grande pittore è troppo di regime?).

Per quanto riguarda la sezione dedicata agli architetti contemporanei, la scelta non è stata affatto quella di offrire una carrellata sull’architettura italiana, compito che il museo lascia ben volentieri alla Biennale di cui Luca Molinari peraltro era parte; piuttosto, di presentare un aspetto inedito dell’immaginario dantesco radicandolo nella contemporaneità. Ed è importante farlo in un museo nazionale famoso per la sua straordinaria sede e per la collezione di arte quattrocentesca. Si tratta di un primo tentativo di rimettere Palazzo Ducale al centro del dibattito architettonico contemporaneo, a mio parere riuscito.

Luigi Gallo

direttore della Galleria Nazionale delle Marche e co-curatore, con Luca Molinari, della mostra “Città di Dio, città degli uomini. Architetture dantesche e utopie urbane”

La puntualizzazione dell’autrice della recensione della mostra

Pur senza evocare la marcia delle camicie nere di Dino Grandi e Italo Balbo sul Mausoleo dantesco a Ravenna nello scorso centenario (1921), il paragone fra il duca Federico e il duce Benito è esplicito ma, detto questo, non siamo gli antifascisti del Cln. Il punto è che la città ideale urbinate non ha nessuna relazione con Dante e la sua Commedia. Inoltre, la sezione aurea negli anni Trenta era usata e decantata da tutti, in architettura (Le Corbusier), nella pittura (Luigi Veronesi), nella grafica editoriale (Edoardo Persico) e persino in poesia (Leonardo Sinisgalli), quindi l’accostamento è arbitrario, senza contare la sconclusionata sarabanda contemporanea finale.

Federica Ciavattini

 

In copertina: Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni, particolare del progetto per il Danteum (Roma, 1938)  © APL

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Last modified: 31 Dicembre 2021