Lo condizione attuale evidenzia la debolezza e il ritiro di una professione che, ridotta alla dimensione tecnica e giuridica, dovrebbe invece rifondare la città dell’Uomo
Si può davvero cercare di abbozzare il bilancio di un anno, quando una nuova ondata di Covid-19 è alle porte, mutando, come maschera ma non come sostanza, le sue conseguenze? E si può tentare questo bilancio per l’architettura?
Le pandemie hanno storie non solo dolorose, ma segnano, per l’uomo, la più chiara trasposizione in realtà dell’esclusione (dalla società e dagli affetti). Dalla peste di Giustiniano, le epidemie hanno creato isole (un lazzaretto vecchio e uno nuovo a Venezia, dove chi veniva da oriente doveva passare la quarantena). I lazzaretti raccontano una storia di edifici dalle forme più varie (basta confrontare quelli di Milano, Ancona, Livorno, Lisbona, Barcellona e così via), ma soprattutto esplicitano il passaggio da emarginazione a sorveglianza, a cura. Una storia affascinante che ha trovato paradigmi molto seguiti, come il Surveiller et punir di Michel Foucault ma anche, e questo riguarda l’oggi, una concezione del potere che molto si avvicina a quella tratteggiata ne Lo stato di eccezione di Carl Schmitt.
E come spesso è accaduto nella storia, la sicurezza, come valore egemone, e la ricostruzione stanno procedendo di pari passo, accompagnate da una sequela di retoriche (smart, resiliente), sostenibile). È indubbio che dietro queste retoriche (dal cambiamento climatico al costo delle materie prime, a un cambio delle fonti energetiche estremamente complesso e arduo) esistono basi scientifiche, anche molto significative. Ma è altrettanto indubbio che ciò avviene rivelando le debolezze, prima teoriche e poi operative, della concezione che oggi si ha della città, dell’abitare e del lavorare… Quasi tutti gli interventi sono legati a “emergenze”, e nell’emergenza emergono i dati più inquietanti di questo 2021. Perché?
Siamo arrivati all’emergenza dopo avere abbandonato strumenti fondamentali per gestirla: in primis, quasi ogni forma di pianificazione, con l’esautorazione delle assemblee legislative, in favore di poteri non eletti, con modelli “tecnologici” e non clinici della cura; con un’amministrazione che è sostanzialmente priva delle competenze auspicate; con un patrimonio edilizio che rivela quanto non esista neanche qualcosa di avvicinabile al Plan général des projets d’embellissement de la ville de Paris (Charles de Wally, 1785). Così, la misura più discussa (le ristrutturazioni edilizie rese quasi ridicole da provvedimenti come il 110, 90, 80%, in una scalarità quasi valoriale) si rivela un caotico sovrapporsi d’interventi.
Per non avvicinarsi troppo al muro del pianto, l’emergenza ci ha sorpreso con un’architettura cui vengono fatti giocare ruoli di precario rilancio economico (perché non si legge più Lo spreco edilizio?). Per la città della salute, cuore ed emblema della cura, la funzionalità è tutt’ora un problema di flussi, e la pianificazione davvero richiama la dimensione onirica del sogno di Tim Finnegans. Arricchendo solo imprese e banche, si palesano i proprietari più furbi e gli improvvisati studiosi del restauro di un moderno che non conosce neanche una seria discussione su quali siano i suoi limiti temporali.
A questa situazione si è arrivati per una decadenza delle scuole di architettura che, rivista oggi, spaventa. Esistono scuole importanti (come Firenze, Roma, Napoli) in cui convivono modelli formativi opposti (il ciclo unico e il 3 e 2) ma, cosa più grave, in cui manca un progetto formativo. D’altronde, i due sistemi nazionali di reclutamento e valutazione hanno conosciuto una decadenza quasi degna della cena delle beffe: studiosi che hanno conseguito l’abilitazione da ordinari che partecipano a concorsi per ricercatori di tipo A; pubblicazioni che non solo rispondono a criteri esclusivamente procedurali, ma che servono essenzialmente per non perdere l’appartenenza (a fare parte di dottorati o commissioni). Cosa si scrive o si progetta e rispetto a quale qualità non compare quasi mai…
E tutto ciò accade mentre si svolgono concorsi da magistrato i cui concorrenti quasi non sanno scrivere in italiano, o abilitazioni professionali per architetti che non sono più in grado di disegnare una pianta o di leggere anche solo An Outline of European Architecture di Nikolaus Pevsner, proprio oggi che si parla della necessità di rifondare l’Europa. Ma la cosa più grave è la dimensione sempre più “tecnica” e “giuridica” di una professione che dovrebbe preoccuparsi di rifondare la città dell’Uomo.
Mai come oggi ci sarebbe bisogno di un ripensamento su cosa possa significare la parola “città” in un clima di diseguaglianze, nuovi imperialismi, indebolimento di tutte le forme che legano cittadinanza e rappresentanza, fondamento essenziale persino di una “sostenibilità sociale” o di una città “umanistica” che consenta di affrontare i problemi con un’etica del vivere sociale, non di un’estetica o di tecniche interamente secolarizzate.
L’architettura si è fondata sulla democrazia e sulla rappresentanza, e non solo perché le nostre matrici sono Pericle e Ippodamo da Mileto. Lo stato di eccezione ce lo sta facendo dimenticare. Ma così le nostre città, ridotte a depositi di memorie, faranno solo la fortuna d’imprese e architetti che le restaureranno in continuazione. Abbellire (e possibilmente vendere) il passato a seconda del committente, dell’impresa, dell’architetto, appare il nuovo kharma. Mentre le città dovrebbero tornare a essere quelle di Georg Simmel, Max Weber e… Fritz Lang.
Se questa è una meditazione insieme triste e rispetto a cui scorrono ironici sorrisini, allora, come diceva Nick Carter, usciamo tutti e l’ultimo sbatta la porta! Sarebbe più dignitoso.
In copertina, un’immagine dell’incidente che è costato la vita a tre operai a Torino per il crollo di una gru il 18 dicembre. Le accelerazioni indotte dalla riproposta del settore edilizio in funzione anticongiunturale è una delle cause principali delle numerose morti cantiere di quest’anno