I 90 e 80 anni di due protagonisti del dibattito architettonico
Lo scorso novembre ha registrato due compleanni di peso, di due personalità nodali per la scena architettonica romana, e non solo, degli ultimi decenni: Paolo Portoghesi (1931) e Franco Purini (1941), hanno compiuto rispettivamente novanta e ottanta anni.
È indiscutibile, pur nella diversificazione delle rispettive posizioni, il loro peso nel dibattito architettonico romano, peso legato anche alla loro capacità d’interlocuzione con realtà più ampie di quelle riconducibili al sempre meno dinamico ambiente capitolino di questi ultimi anni. Una centralità relazionata al modo di concepire il ruolo dell’architetto come un intellettuale, in grado di alimentare una riflessione teorica sostenuta da un’infaticabile capacità argomentativa espressa nella vasta produzione pubblicistica di entrambi. Dimensione teorica che non ostacola, o pone in subordine, una costante e continuativa attività progettuale.
Portoghesi, infatti, nel 1967, quando viene chiamato a Milano a insegnare presso il Politecnico, del quale sarà preside sino alla sospensione temporanea dall’insegnamento nel 1971, intesse un dialogo fecondo con l’ambiente culturale della città, ed è proprio in quel contesto che dà l’avvio all’esperienza di “Controspazio”, piccola ma fertile rivista che per poco più d’una dozzina d’anni diventerà uno dei più interessanti e tendenziosi poli di riflessione, ma anche di diffusione e di apertura della cultura architettonica italiana al dibattito internazionale coevo. Le sue redazioni milanese e romana saranno infatti le palestre nelle quali si faranno le ossa Ezio Bonfanti e Massimo Scolari, ma anche alcune delle personalità più interessanti del panorama recente della capitale, da Alessandro Anselmi, a Renato Nicolini, a Francesco Cellini, allo stesso Purini, ad Antonino Terranova.
Negli stessi anni, con una visione rifondativa della disciplina, Portoghesi avvia la stesura del Dizionario di Architettura e Urbanistica, alla cui redazione chiama una parte dei giovani che avevano frequentato il suo corso di Letteratura italiana, nella Facoltà di architettura di Roma tra il ‘62 e il ‘66. È proprio in questa capacità di catalizzazione e di coinvolgimento che Portoghesi si dimostra, al di là della sua qualità di storico e di sottile studioso del barocco, un notevole promotore culturale, ampliando lo spettro d’azione della figura dello storico-progettista che a Roma aveva precedenti illustri in Gustavo Giovannoni e Vincenzo Fasolo.
Questo attivismo organizzativo lo conduce, nel 1980, a dirigere la prima Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, dal titolo La presenza del passato, un’esposizione che segna uno spartiacque nella sua traiettoria intellettuale, portando a maturazione un percorso iniziato anni prima. Da questo momento diviene infatti uno dei punti di riferimento della corrente del postmodernismo storicista. Un ruolo che sul piano della produzione progettuale lo spinge a comprimere quell’attitudine al dialogo con la storia che lo aveva portato nei due decenni precedenti a evocare, ad alludere a figure e forme della tradizione in architetture d’innegabile originalità, come le case Baldi a Roma e Andreis a Scandriglia, il villino Papanice a Roma e la chiesa della Sacra Famiglia a Salerno. Un condizionamento che carica la sua produzione successiva di una volontà dimostrativa basata su citazioni sempre più esplicite e dirette di stilemi e archetipi dell’architettura del passato, non sempre ricondotte a sintesi altrettanto risolte. Pur annoverando realizzazioni notevoli, quali le moschee di Roma e Strasburgo, diversi complessi residenziali, progetti di chiese e spazi urbani, su una parte di esse aleggia il dubbio di una ridondanza segnica e una «disinvoltura compositiva», inflessibilmente stigmatizzata da Manfredo Tafuri a metà anni ’80.
Di dieci anni più giovane, anche Purini si è caratterizzato per una presenza costante nella scena romana, come mediatore tra la generazione degli architetti successiva a quella dei maestri della prima modernità romana e la propria. A partire dal lavoro, ancora studente, tra il ‘63 e il ’68, nello studio di Maurizio Sacripanti per proseguire, alla fine del decennio, con la collaborazione con lo studio di Vittorio Gregotti. Un apprendistato che da subito lo proietta in una dimensione progettuale operativa e che gli apre la visione della grande scala territoriale, carattere che connoterà in particolar modo la sua produzione iniziale.
L’impegno progettuale non viene però mai disgiunto, ma piuttosto si alimenta di una propensione alla riflessione sui limiti e i caratteri della disciplina, sulle tecniche proprie del fare architettonico. Un pensiero a sua volta inscindibile dal desiderio di trasmetterne gli esiti. Del 1980 è la pubblicazione de L’architettura didattica, nel quale raccoglie le lezioni tenute nella Facoltà di architettura di Reggio Calabria: un libro che in certa misura trova degli interessanti paralleli nelle riflessioni condotte all’incirca negli stessi anni da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia e da Bruno Munari in Fantasia.
Questo approccio didattico si lega a una concezione del progetto architettonico come entità compiuta in sé, in certa misura autonoma dalla costruzione. Una concezione che rende la sua rappresentazione un passaggio cruciale d’indagine, formazione e sviluppo dell’idea architettonica; il luogo della sperimentazione figurativa, ancora una volta non necessariamente legato al processo costruttivo del manufatto. Questo ha dato origine a una produzione grafica ricchissima e tematicamente articolata, nella quale forse va cercato il contributo più peculiare e visionario del Purini architetto, accanto e oltre alle sue pur consistenti realizzazioni.
Roma ha celebrato con alcune mostre, un convegno alla Casa dell’Architettura e un omaggio tenutosi nella facoltà di Architettura de “La Sapienza”, dove hanno studiato e insegnato, l’anniversario di questi due intellettuali parte ancora pienamente attiva del dibattito architettonico italiano.
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Last modified: 15 Dicembre 2021