L’esempio dell’unità di ricerca R-Cubed del New York Institute of Technology per il “complex problem solving” in episodi estremi
Prevenire è meglio che curare. Così recitava un celebre spot degli anni ottanta e così devono avere pensato anche al New York Institute of Technology, una delle tante Scuole di architettura degli Stati Uniti, sebbene non altrettanto nota delle più celebri “sorelle newyorkesi” presso le quali sono transitati i protagonisti dello star system degli ultimi cinquant’anni. Al NYIT hanno deciso di gestire le risorse finanziarie non invitando i grandi nomi internazionali, ma in programmi di studio innovativi, affiancando alla tradizionale formazione progettuale degli studenti una competenza sconosciuta nella realtà universitaria italiana, quella di “complex problem solving” in episodi estremi, facendo tesoro di quanto appreso dai catastrofici eventi naturali che hanno flagellato il Nordamerica nell’ultimo quinquennio.
Disastri naturali sempre più frequenti e violenti
Le circostanze sempre più violente di una natura incline a trovare radicali soluzioni al dissennato comportamento degli irrispettosi colonizzatori del pianeta si sono susseguite a un ritmo vertiginoso, con intensità distruttiva aumentata parallelamente ai fenomeni di surriscaldamento atmosferico e degli oceani. L’Agenzia federale della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) ha delineato un rapporto in cui si stima che nel solo 2020 si sono verificate 22 catastrofi naturali, causando 262 vittime e circa 95 miliardi di dollari di danni. Si valuta che negli USA, dal 2017 a oggi, fra trombe d’aria, uragani, tempeste tropicali, siccità estreme, terremoti, inondazioni, incendi boschivi e tempeste di neve, si possano contare non meno di 306 miliardi di dollari di danni a carico del governo federale.
Numeri spaventosi che facciamo fatica ad associare ai grandi paesi economicamente avanzati, quasi vi fosse per loro una sorta d’immunità rispetto alle tragedie che invece colpiscono regolarmente regioni e continenti già flagellati da fame, povertà e sottosviluppo. Su questi dati s’innestano da tempo analisi tecniche, sociali ed economiche che riguardano le modalità operative dei soccorsi, il calcolo dei danni, le popolazioni più colpite, i tempi di ricostruzione, le fasce di povertà che si ampliano esponenzialmente a seguito di tali episodi.
Le attività di R-CUBED | Relief-Reconstruction-Resilience
Con questa premessa, alla Scuola di architettura e design del NYIT, si è costituita l’unità di ricerca “R-CUBED | Relief-Reconstruction-Resilience”, diretta dai professori Robert Cody, Farzana Gandhi e Jaime Martinez. Lo scopo è fornire un apprendimento esperienziale agli studenti che collaborano in molteplici campi del sapere (architettura, ingegneria, telecomunicazioni ecc.), realizzando infrastrutture fisiche, educative, sociali, biomediche, tecnologiche, della comunicazione nei luoghi colpiti da calamità naturali o da disastri causati dall’uomo.
Gli studenti vengono così preparati a partecipare a futuri ambienti professionali STEAM (Science, Technics, Engineering, Art and Mathematics) mediante un percorso di apprendimento multidisciplinare, attraverso lo sviluppo di progetti per la risoluzione di problemi complessi basati su situazioni che potrebbero verificarsi nella vita reale. Il luogo in cui prende corpo questa iniziativa è proprio il mondo accademico, che si propone al tempo stesso come ambito educativo e di confronto fra studenti e soggetti con differenti competenze e professionalità, coinvolgendo docenti provenienti da varie parti del mondo, tecnici, esperti di vario settore, professionisti, amministratori e stakeholder. Una formazione importante, quella prevista dall’NYIT, per una nuova generazione di architetti che, in un paese flagellato ogni anno da eventi di questa portata, dovrà sempre più spesso fare i conti con una natura che si ribella con sempre maggiore frequenza e veemenza.
Una discussione continua sulla gestione dei disastri
R-CUBED mira a sviluppare un ciclo annuale continuo di tali progetti, raccogliendo al tempo stesso importanti dati quantitativi e analitici in mappature appositamente realizzate, di cui si è ampiamente discusso in un recente evento internazionale cui hanno partecipato biologi, architetti, ingegneri infrastrutturali, tecnici ed esperti in telecomunicazioni, i quali hanno esposto i loro punti di vista rispetto alle situazioni affrontate in contesti di post calamità. Dal confronto sono emersi suggerimenti e osservazioni certamente utili a carattere generale, ma assolutamente necessari per la seconda delle giornate di studio, un workshop finalizzato alla messa a punto di uno strumento operativo in via sperimentale (un “toolkit for collaborative engagement”, come è stato definito) per la visualizzazione di dati su più infrastrutture “rigide” (energia, acqua, telecomunicazioni, trasporti, cibo) e “morbide” (servizi di emergenza, salute, economia, istruzione, alloggio) per rivelare le vulnerabilità di due ipotetiche comunità prese in esame a campione, individuate nelle periferie di Seattle (South Park, nello stato di Washington) e di Dalton (Whitfield, in Georgia). Ipotizzando differenti disastri naturali e guasti di sistema a cascata, sette gruppi interdisciplinari costituiti da esperti e studenti si sono confrontati per individuare possibili azioni da adottare prima, durante e dopo una calamità sotto molteplici profili: architettura, pianificazione urbana, ingegneria delle infrastrutture, sanità pubblica, medicina, sociologia e politica.
Il ruolo degli architetti, coordinatori di competenze
Un brainstorming che ha portato ad almeno due elementi da sottolineare. Innanzitutto la ricchezza di risposte e proposte che nascono da discussioni incentrate sull’analisi di un tema comune, osservato con diverse competenze. Una modalità, questa, a cui noi architetti siamo piuttosto inclini per formazione, chiamati a gestire il coordinamento del progetto e del cantiere nelle varie fasi. Una peculiarità che rende la nostra professionalità particolarmente importante nella gestione di molteplici competenze operanti in sinergia e che varrebbe la pena potenziare ulteriormente nel ciclo formativo degli studenti, perché costituisce una specificità sempre più rara nella formazione orientata alla specializzazione di altri indirizzi di studi.
La seconda, non meno importante, è la necessità concreta d’inserire all’interno dei corsi di studio universitari una formazione non specialistica, ma obbligatoria, di avvicinamento ai temi della gestione e – ancor più – della prevenzione degli eventi catastrofici, che permetta al giovane architetto di comprendere le implicazioni ambientali del progetto anche di fronte a casi estremi, ma reali, come quelli studiati al NYIT.
In Italia questo sapere è affidato in massima parte alla Protezione civile e alle istituzioni preposte (Croce rossa, Vigili del fuoco, Esercito). Ma la storia delle grandi calamità naturali che abbiamo vissuto sul territorio nazionale (prevalentemente terremoti) e quella che – pur non essendola affatto – sembra non riguardarci perché lontana da un’Europa ancora relativamente immune sotto questo profilo, dovrebbero farci pensare con razionalità alla necessità di preparare le generazioni future a gestire un ulteriore aspetto del progetto, aggiungendo alle voci alle quali siamo quotidianamente chiamati a rispondere l’inderogabile attenzione a prevenire le conseguenze delle manifestazioni di una natura, ovviamente, di per sé ingovernabile.
Immagine di copertina: New Orleans allagata dopo l’uragano Katrina (2005)
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Last modified: 7 Febbraio 2024