Storico dell’architettura e della città del tempo presente, senza per questo essere un critico militante per qualche stile, posizione, ideologia
Richard Ingersoll era uno spirito libero e cercare, per lui, una categoria cui ricondurlo sarebbe ancor più che sbagliato. Era inquieto (ha insegnato senza mai farsi etichettare, dalla Rice University all’ETH di Zurigo, da Milano alla Syracuse University di Firenze). Amava le inchieste, seguendo lo spirito del giornalismo che ha la realtà come oggetto da indagare, amava come Thoreau: camminare nei luoghi di cui scriveva. Pur essendo vissuto così a lungo in Italia, non si è mai collocato rispetto a scuole o anche solo appartenenze.
Ha dialogato con architetti, artisti, economisti, sociologi. La storia amava costruirla davvero come histoire du temp présent, senza per questo essere un critico militante per qualche stile, posizione, ideologia. I suoi due testi più noti Periferia italiana (scritta con Lorenzo Bellicini) nel 2002 e Sprawltown uscito in italiano nel 2004 e poi per Princeton University Press due anni dopo, entrambi per i tipi Meltemi, definiscono l’ampio perimetro dei suoi interessi, figlio anche della sua formazione a Berkeley e del suo insegnamento alla Rice University. In realtà in Italia, Ingersoll ha dato rara prova di un interesse quasi onnivoro.
Le due edizioni (soprattutto la seconda del 2018 per OUP USA) di World Architecture: a cross-cultural History (con Spiro Kostof) condensano e radicalizzano il suo approccio, che i 15 anni di Executive Editor di «Design Book Review» avevano plasmato. Il passaggio, per chi avesse interesse a capirne la maturazione, da The American City (Rice Univeristy, 1992) a World Architecture non è tanto nella scala. Proprio sul tema della diffusione del modello americano di urbanizzazione, il libro testimonia quanto sia il punto di vista a mutare, più che la geografia.
Ingersoll aveva l’ironia come arma essenziale per non trasformare oggetto e autore in protagonisti incoscienti di una commedia goldoniana e credo che leggere il suo Reflections on the Ironic Order in American Architecture (2010), rimanga l’omaggio più sincero a questa figura di moderno clerico vagante. anche nel tempo. Ingersoll, come ogni storico americano che si rispetti, ha saggi e riflessioni originali sull’architettura rinascimentale, sino a quelle più urticanti, e questa volta senza intinte nel sarcasmo di Architecture in the Age of Toxic Bond (2011).
Certo la città, davvero in una chiave simmeliana, era il suo campo di lavoro preferito, quello dove poteva esercitare l’acutezza del suo sguardo, l’arguzia delle sue osservazioni e la leggerezza della sua scrittura. Con lui quasi scompare la figura dello studioso americano in volontario esilio in Italia, che non a caso aveva trovato la sua precaria casa accademica alla Syracuse University a Firenze. La nostra generazione vede assottigliarsi, non senza un richiamo faustiano, la fine di una maniera di studiare senza steccati; così Ingersoll inizia a scrivere sui temi più “conformisti” (Le Corbusier and the Texts of Modernism), per passare all’Agricivismo nel 2009, e poi ai numerosi e a volte corrosivi saggi sulle città sostenibili nell’ultimo decennio. Ma è una strada oggi sempre meno frequentata.
Ingersoll è stato soprattutto un esempio di come essere cives, che ci arriva in Italia da una cultura che noi vorremmo individualista e che invece esalta la socialità, che noi continuiamo a leggere sub specie comunitaria (e non certo quella di Rawls), quando proprio l’attenzione alla metropoli ne porta in luce diseguaglianze insanabili con la crisi sempre più radicale del concetto di giustizia, che stava tanto a cuore persino al primo Unger.
E ci mancherà di Richard in primis questo suo guardare all’architettura, alla città, da esiliato dal mondo che noi abbiamo ancora oggi assunto a modello. Lascia molto tristi chi ti conosceva e ti aveva come amico, forse ancor più chi non ha avuto il privilegio d’incontrarti.
Immagine di copertina: fonte arquitecturaviva.com