La figura di un cives, tra i cenacoli dello studio professionale e delle riviste, e il progetto come modo per pensare e cambiare il mondo
Vittorio Gregotti ha occupato la scena architettonica italiana per quasi sessant’anni, e neanche la grande mostra antologica allestita a Milano a fine 2017 è riuscita a restituire l’intero suo percorso. Si potrebbe certo procedere per periodi, con l’espediente di un fuoco per decennio. Il rapporto con Ernesto Nathan Rogers per gli anni ’50; il libro Il territorio dell’architettura per i ’60, lo Zen 2 e il suo rapporto con Palermo, dove insegna, ma anche Arcavacata e tutto il Sud Italia per gli anni ’70, la direzione di «Casabella» e «Rassegna» per gli anni ’80, sino alla metà dei ’90, il lungo materializzarsi del progetto Bicocca che ha nel 1997, con l’inaugurazione del Teatro degli Arcimboldi il suo fulcro, il testo Contro la fine dell’architettura per il primo decennio del XXI secolo. Ma anche questa biografia per «eccezioni», che pure fa cogliere la capacità di Gregotti di passare da un «genere» a un altro, lascia in ombra caratteristiche fondamentali della sua personalità.
La prima, quella ereditaria, il saper far dialogare e lavorare persone e competenze diverse. Certo Gregotti non era un «pedagogo»: non a caso questa sua capacità non l’ha esercitata all’università, se il suo unico allievo diretto che gli si può riconoscere è Carlo Magnani. Il suo esercitare una capacità organizzativa quasi fordista la raffina nel suo studio professionale e il dono di saper creare cenacoli, facendo convivere tante prime donne, attorno a riviste, lo materializza in particolare con «Casabella» e «Rassegna». Un’indagine su chi e quanti sono passati dallo studio Gregotti, il livre noir del suo atelier, ci consentirà di misurare l’influenza che Gregotti ha avuto sull’architettura italiana. Con i conflitti, le liti, le invidie, ma anche la crescita professionale, l’educazione al lavoro di gruppo, la capacità di reggere il confronto che quell’esperienza ha lasciato in tanti. Così si misurerà la sua «fama» dalla straordinaria varietà d’intellettuali che riusciva a radunare attorno a progetti sia di «Casabella» che di «Rassegna», usando i suoi «dioscuri» (Pierre-Alain Croset, Sebastiano Brandolini, Bruno Pedretti e Dario Matteoni) spesso con durezza. Gregotti era figlio non solo di una famiglia d’industriali ma soprattutto di una terra, tra Novara e Biella, davvero poco propensa al cameratismo.
Gregotti non ha mai troppo guardato al riconoscimento dei suoi colleghi. Ha sempre privilegiato come interlocutori quelli che per necessità chiamerò intellettuali. Con un’attenzione particolare per gli storici (basta ricordare il ruolo che hanno avuto, solo per ricordarne alcuni, Manfredo Tafuri, Jean-Louis Cohen, Werner Oechslin, Jacques Gubler nella redazione allargata). Un indizio che per un consumatore ossessivo della Scuola di Francoforte e della fenomenologia qual era Gregotti, dava conto di come la sua curiosità lo portasse ad andar oltre anche le esperienze della sua formazione, quelle per tutti decisive. E in questo Gregotti era diverso da quasi tutti i suoi coetanei, non solo italiani. Forse l’unico che un po’ gli si può avvicinare, anche se le storie e i caratteri erano diversissimi, è Roberto Gabetti.
Un’irrequietezza intellettuale che non si esercita solo nella curiosità che lo accompagnava come segno distintivo del carattere, ma soprattutto nella capacità, in ruoli e posizioni diverse, di mettersi vicino a o di avere come principali collaboratori persone come Rogers o Bernardo Secchi. Ma se «Casabella» rappresentava il suo salon, quasi settecentesco, «Rassegna» era lo studiolo dove lui coltivava i suoi interessi culturali più profondi. Sarebbe bello che qualcuno studiasse davvero la serie completa dei numeri di «Rassegna» da lui curati e li confrontasse con la sua biblioteca e la sua scrittura: uscirebbero sorprese davvero inattese.
Ma Gregotti era soprattutto un cives, e le tante volte che ho avuto occasione di parlare con lui, la figura che appariva, quasi in trasparenza, era quella di Carlo Cattaneo. È difficile avvicinarsi alla produzione progettuale e scritta di Gregotti senza cogliere, nei suoi disegni come nella sua scrittura, la vena del polemista, il piacere della provocazione, segnata negli ultimi anni da una disillusione che faceva fatica a trattenere e che non era legata alla fine del suo studio professionale. Il suo testo, che oggi può essere letto quasi come il suo testamento spirituale, Contro la fine dell’architettura (2008), non è solo la difesa di un’architettura come ars poietica e come forma, la più raffinata, d’impegno civile; era anche il rifiuto della sconfitta non di un sogno o di un’utopia, ma di un dovere che la sua formazione e la sua storia gli lasciavano in eredità.
L’architettura era e doveva continuare ad essere un modo per pensare e cambiare il mondo; non un gesto, un segno, una tecnica. Nonostante fosse un mondano nel significato che la fenomenologia dà al termine, Gregotti restava L’ingénu di Voltaire, capace d’indignarsi, di andar contro quella stessa società borghese e milanese cui così profondamente apparteneva. Forse non era un caso che il suo rifugio fosse divenuta la casa a Londra.
Ma oggi che è scomparso ritorna in mente il paragrafo che chiude gli Esercizi spirituali di Pierre Hadot. Gregotti ha sempre perseguito la coerenza tra parola e vita quotidiana: con scortesia a volte, con durezza quando pensava fosse necessario, con un’amicizia quasi sempre fondata sulla curiosità per l’altro.
Addio Vittorio, te ne sei andato senza conoscere la nausea che così profondamente Albert Camus ci ha lasciato nella sua scrittura e nella sua fine. È un grande privilegio che la vita ti ha concesso.
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vittorio gregotti
Last modified: 19 Marzo 2020