Una mostra all’Architekturzentrum testimonia l’influenza dei fatti politici e storici su architettura e urbanistica austriache nel secondo dopoguerra
VIENNA. La nuova mostra dell’Architekturzentrum sull’architettura austriaca, e in particolare viennese, nel periodo della guerra fredda, “Kalter Krieg und Architektur. Beiträge zur Demokratisierung Österreichs nach 1945” (“Guerra fredda e architettura. Contributi alla democratizzazione dell’Austria dopo il 1945”), aperta fino al 24 febbraio 2020, è una miniera di materiali da approfondire, e invita a prendersi tutto il tempo necessario.
Il termine guerra fredda venne coniato nel 1947 da Bernard Mannes Baruch, che definì quanto stava accadendo a vari livelli nel mondo e che già subito dopo la capitolazione, analogamente alla Germania e a Berlino, aveva portato anche in Austria e a Vienna alla suddivisione in settori, ciascuno sotto la giurisdizione di uno dei 4 Alleati vincitori del secondo conflitto mondiale. Una situazione che durò fino al 1955: un decennio in cui il Paese, e in particolare la capitale, dovevano essere ricostruiti, denazificati, “rieducati” e guidati verso la democrazia. Compiti questi, assunti in modo diverso e con esiti differenti dai 4 Alleati, ma comunque con l’intento di affermare ognuno la propria visione del mondo e il proprio sistema politico e sociale. Un clima che venne colto in modo paradigmatico dal mitico film Il terzo uomo, girato nel 1948-49 da Carol Reed in una Vienna ancora soffocata dalle macerie, in mezzo alle quali tramava Orson Welles alias Harry Lime.
In questo scenario, l’architettura giocò un ruolo cruciale, in particolare nei primi dieci anni del dopoguerra, coincidenti con la permanenza degli Alleati e con la ricostruzione, visto che la guerra aveva distrutto o danneggiato 65.000 abitazioni, 3.000 costruzioni industriali e 400 edifici storico-culturali.
Come ogni altra iniziativa, anche i programmi di sviluppo urbanistico e edilizio s’impregnarono subito di propaganda e il confronto sempre più teso tra Unione Sovietica e Stati Uniti trasformò Vienna in un eldorado per spie e uno dei centri nevralgici della guerra fredda, combattuta anche con vere e proprie offensive culturali. Con una ferrea opposizione tra capitalismo e comunismo, ogni potenza vincitrice convogliò l’immagine di sé che riteneva più adeguata e cercò d’influenzare ogni accadimento austriaco. Uno degli strumenti più utilizzati furono le mostre, i bandi internazionali per progetti ispirati o sostenuti dagli Alleati, i seminari, i convegni: tutte attività rubricate come “pubbliche relazioni”. A questo solo scopo, nel 1949 gli americani contavano in Austria ben 1.060 propri addetti.
La mostra
Curata da Monika Platzer (e accompagnata da un catalogo in tedesco e inglese), per la prima volta presenta una ricostruzione di quel clima storico di pericolosa opposizione fra differenti visioni del mondo attraverso alcuni esempi di best practice, così come intese da ciascun Alleato. Fotografie, disegni, progetti, modelli, documenti, filmati, audio, fra cui alcuni desecretati di recente, sono presentati attraverso un percorso suddiviso in quattro aree, corrispondenti alle zone di occupazione. L’efficacia della rassegna sta nell’approccio che illustra sviluppi urbanistici e architettonici antitetici.
Mentre gli inglesi, che al castello di Schönbrunn montavano con noncuranza spine elettriche sugli affreschi barocchi di Johann Wenzel Bergl, proponevano i loro modelli di greater London e new towns, convogliando un’idea di città diffusa attraverso le pagine della rivista di architettura “Der Aufbau”, fondata nel 1946, i francesi personalizzarono fortemente le loro proposte: Le Corbusier venne personalmente a Vienna nel 1948, in occasione di un’apposita mostra sulla sua opera, trovando accoglienza tiepida da parte delle autorità locali ma inducendo ampi dibattiti in ambito universitario sulle sue idee e orientamenti.
I sovietici, che come a Berlino furono i primi ad entrare e liberare la capitale austriaca nell’aprile 1945, s’insediarono nella parte est della città, puntando su ciò che di grandioso dal punto di vista architettonico la madrepatria aveva da offrire: in particolare imponenti grattacieli e metodi costruttivi rapidi, per fornire alla popolazione soluzioni abitative adeguate ad una metropoli; ma donarono anche 2 milioni di scellini per la ricostruzione dell’Opera di Stato.
Significativa fu nel 1957 la sorprendente giustapposizione dei due principali blocchi ideologici Urss-Usa in occasione della fiera autunnale di Vienna, dove i rispettivi padiglioni furono eretti uno di fronte all’altro, esplicitando in linee e forme le opposte idee di società: per i sovietici un tradizionale, rassicurante edificio quasi chiesastico, “socialista nel contenuto, nazionale nella forma”, progettato da Wiktor S. Andrejew e Wilhelm Schütte; per gli americani una sobria, funzionale costruzione di vetro, alluminio, acciaio e materiali sintetici, firmata da Walter Dorwin Teague e Karl Schwanzer.
Soprattutto a Vienna, dagli occupanti d’oltreoceano l’American way of life venne declinato in ogni possibile variante, anche grazie alla potenza di fuoco del Piano Marshall, attivo in Austria dall’estate del 1948. In opposizione alle massicce costruzioni sovietiche, e contro le idee di Le Corbusier, si puntò sull’agilità e la convenienza dell’edilizia prefabbricata, come soluzione efficiente e rapida per dare risposte alle necessità della ricostruzione, sfruttando inoltre l’ampio e verde hinterland di Vienna come auspicabile zona di espansione urbana. L’esempio principe di questa strategia è ampiamente documentato in mostra, attraverso l’insediamento di 15 villette in legno nella periferia sud-ovest della capitale, costruite su progetto di Carl Auböck e Roland Rainer nel 1952-54. «Luminose, accoglienti, pratiche, rispondono a tutti i requisiti della vita moderna e sono le più avanzate al mondo», recitava la pubblicità. Grandi finestre, pareti interne costituite da armadi con ante scorrevoli, «naturalmente bagno con vasca», riscaldamento a pavimento, cucine già predisposte con ogni elettrodomestico, «almeno 150 mq» di giardino e «autoveicoli banditi fuori dall’insediamento o in garage». Gli americani lasciarono a Vienna anche la centralissima Amerika Haus e l’hotel Pan Am di Walter Jaksche e Carl Appel. Anche dopo la fine dell’occupazione, tra il 1956 e il 1960 gli americani organizzarono in Austria un gran numero di conferenze e mostre, oltre a cinque seminari alla celebre Sommerakademie di Salisburgo.
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Last modified: 18 Maggio 2020