Mario Abis, sociologo e docente, inaugura una serie di interviste sul ruolo odierno del progettista e della didattica dell’architettura
In vista del convegno “Architettura Oggi. L’evoluzione nel ruolo del progettista e nella didattica dell’architettura” (Ravenna, 22-24 novembre 2018), abbiamo intervistato Mario Abis, sociologo, docente allo IULM di Milano e fondatore dell’istituto di ricerca Makno. Focus del convegno, di cui Abis è tra i relatori, l’aggiornamento delle competenze professionali richieste al progettista oggi alla luce delle nuove tecnologie e di una sempre maggiore complessità sociale.
Lei ha recentemente svolto un’indagine presentata al Congresso Nazionale degli Architetti (Roma, 5-7 luglio 2018), sull’immagine sociale dell’architetto e dell’urbanista rivolta ad individuare quali sono le attese sociali riposte nell’architettura e nella figura professionale del progettista. Alla luce della sua ricerca, com’è percepita la figura dell’architetto dalla società e viceversa; ovvero, di che cosa ha bisogno il sociale oggi?
Un dato fondamentale emerso all’indagine è che quasi l’80% dell’opinione pubblica ritiene importante l’architetto per lo sviluppo economico del paese, anzi è una figura cruciale. Significa quindi che vi è una forte attesa sociale nei suoi confronti. Questo tema è abbastanza nuovo rispetto alla concezione della figura professionale dell’architetto nel passato. È una professione fondamentale per promuovere e condurre lo sviluppo economico del paese, ma per poterlo fare è necessario che sappia mettere insieme la complessità del reale in cui viviamo, delle conoscenze tecniche proprie e degli altri apporti disciplinari. In questo senso l’aggiornamento che viene richiesto all’architetto è non solo di avere competenze tecniche, ma di avere grandi capacità di coordinamento delle conoscenze e di produzione di sintesi di più aspetti a partire dalle visioni prodotte da culture differenziate. Quindi l’architetto deve essere colui che produce una sintesi delle complessità, ma l’indagine ha evidenziato che non è più solo questo. Perché per poter corrispondere alle necessità sociali, l’architetto deve essere un “regista dello sviluppo”. Questo nuovo ruolo impone un cambio radicale nella combinazione delle proprie competenze mettendo insieme più componenti: quella socio-tecnica, quella tecnico-professionale e soprattutto ritengo fondamentale la capacità di coordinamento organizzativo interno.
Nuovo ruolo sociale e nuove competenze: quali sono in particolare quelle che lei evidenzia?
La figura che sta emergendo oggi è quella dell’architetto-manager. Perché sia capace di rispondere al profilo dei bisogni egli però deve avere una struttura organizzata. I bisogni possono essere noti mediante analisi ed elaborazioni, sono determinabili, ma è necessario che vi sia una struttura capace d’individuarli, organizzarli, mettere a sistema tutte le componenti. La struttura organizzativa dello studio è imprescindibile oggi. I due termini chiave del problema sono organizzazione e coordinamento. Le nuove capacità manageriali richieste all’architetto devono includere uno spiccato atteggiamento al problem solving di forte accezione sociale oltre che tecnica, ed un costruttivo approccio al problem setting soprattutto se l’interlocutore è pubblico. È chiaro che queste nuove abilità richieste devono essere sviluppate a partire dalla formazione universitaria, e quindi ci si deve interrogare sul cambio delle competenze nell’ottica di un aggiornamento dei percorsi formativi.
Dall’indagine che ha svolto sono emersi alcuni punti chiave. Nell’aspettativa sociale l’architetto dev’essere capace di dare risposta ai bisogni, avere creatività, fare “architettura di e per tutti”, avere capacità di relazione ed infine buon coordinamento. Crede che la progettazione partecipata, come pratica di sviluppo di progetti pubblici, possa essere una risposta?
Ci vuole creatività, bisogna pensare in modo differente. La partecipazione non può essere mero ingaggio della comunità finalizzata a capire le richieste e tradurne delle risposte. L’architetto deve essere un innovatore, quindi deve trovare nuovi strumenti di sviluppo progettuale. Servono nuovi tipi di ricerche, di dati, di informazioni d’interfaccia derivate da analisi sociali, economiche, demografiche… Un know-how documentativo che determina un’analisi di contesto più complessa. Il punto di contatto tra quanto detto ed i processi partecipativi è sicuramente la lettura del bisogno, ma le modalità devono essere pensate in modo assolutamente nuovo.
Lo si dice spesso e qui trova conferma il fatto che si passa dunque dal progetto al processo. Ciò che però emerge dalle sue considerazioni è l’amplificazione della nozione di “processo” che non appartiene tanto al fatto fisico-costruttivo in sé, quanto hai molti “facts” connessi a vario grado con il progetto.
Il punto di partenza è la complessità, l’architetto deve trovare forme per sviluppare progetti complessi mettendo insieme molti aspetti. Non deve essere un tuttologo, ma avere delle basi formative per poter dialogare con altre figure professionali come il sociologo, l’antropologo… In questo senso l’architetto non è più un autore perché opera come coordinatore, è un regista appunto. Se il progettista è credibile in quanto capace di gestire la complessità, è anche garante della fattibilità del progetto. Questi aspetti sono fondamentali per attrarre finanziamenti privati che vanno visti come sussidiari rispetto al pubblico, e rivelanti nello sviluppo economico del paese. Il regista dello sviluppo deve assumere un ruolo nel policy making. Nei suoi esiti, dunque, il suo ruolo è quello del regista, ma nei suoi esordi, il suo ruolo è quello dell’ascoltatore. Il sociale attende una traduzione fattiva dei propri bisogni.
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Last modified: 31 Ottobre 2018
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