Un modello esemplare di città (sulla carta) che si scontra con la dura realtà dove forse nemmeno i laboratori partecipati sono in grado di valicare le retoriche
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MESSINA. Esiste un «modello Messina» riconosciuto nel resto del Paese, che però ha difficoltà ad attuarsi nella stessa Messina. Partiamo da questo paradosso per introdurre il primo dei due articoli che dedichiamo alla città dello Stretto.
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Il «modello Messina»
La Variante di tutela Ambientale, ossia la variante al Prg (risalente agli anni ’90) che prevede la cancellazione o il trasferimento di 2.800.000 mc di previsioni edificatorie dalle aree a rischio verso aree sicure, è stata riconosciuta a livello nazionale come «Progetto Pilota Messina» da Casa Italia (la casa: luogo che per antonomasia deve essere sicuro), la struttura di missione della Protezione civile che fa capo direttamente alla presidenza del Consiglio dei ministri e che si occupa della messa in sicurezza del patrimonio edilizio e dei territori italiani. Uno strumento urbanistico innovativo, quello peloritano, assurto a riferimento nazionale, ma che non riesce a vedere la luce, da nove mesi all’ordine del giorno del Consiglio comunale, senza essere mai discusso. Mentre sei sono gli anni trascorsi da quando è stato richiesto dal Consiglio comunale.
E intanto, però, in attesa della sua approvazione, sono consentite edificazioni in zone che si sa essere a rischio. Lungaggini che mettono al palo pure la possibilità di agganciare i fondi che Casa Italia investirebbe nel progetto. Ad allungare ulteriormente i tempi, inoltre, anche la rielaborazione della stessa Variante richiesta di recente dal Genio Civile per alcuni emendamenti nel frattempo introdotti. È così che resta tra color che sono sospesi la città metropolitana già «esclusa da ogni visione strategica» dal Governo nazionale, come ha titolato Lucio D’amico sulla “Gazzetta del Sud”: «è stato sancito il declassamento dell’Autorità portuale, reso quasi impraticabile il percorso per l’istituzione della Zes – Zona economica speciale (…)».
Ma dove verrebbero trasferite le cubature delle aree a rischio? In parte di quelle ricadenti nell’ambito del Piau, il Piano innovativo in ambito urbano, «il più ambizioso programma mai messo in campo a Messina, scrive Alessandro Tumino, sempre sulla “Gazzetta del Sud”, tramite sinergie tra Istituzioni per creare un waterfront europeo tra la Falce e Maregrosso», aree attualmente in forte degrado. Al progetto, con un concorso bandito dal Comune nel 2010 e aggiudicato nel 2012, il nostro giornale aveva dedicato un ampio approfondimento, definendolo «un ponte lanciato verso il futuro, ma anche il primo vero tentativo di rispondere alla necessità storica di ridare un’identità alla città che dopo il 1908 è riuscita solo a cancellare il suo illustre passato» (cfr. n. 91, febb. 2011, p. 2). Il trasferimento di nuove cubature a valle della via La Farina sarebbero compensate dalla diminuzione dei volumi oggi esistenti nell’area, tramite demolizioni.
Anche per il Piau, però, si procede lentamente, con battute d’arresto e vistosi ripensamenti: la progettazione simbolo, la torre alta 80 metri che avrebbe dovuto qualificare il nuovo Parco di Maregrosso, è stata drasticamente rivisitata dai progettisti, il gruppo Ufo, Urban Future Organization, su richiesta dello stesso assessore all’Urbanistica e ai Lavori Pubblici del Comune, Sergio De Cola (che firma l’intervento seguente insieme a Carlo Gasparrini). Secondo il nuovo progetto, la torre, come inghiottita da una voragine, ha ceduto il posto a uno spazio centrale inquadrato da tre edifici, conclusi da terrazze semicircolari da cui godere il panorama mozzafiato sullo Stretto: nella città ad elevata sismicità, una crepa architettonico-urbanistica converte l’immagine che l’associa alle macerie di un terremoto, per farsi nucleo generatore di nuovi volumi e spazi. Un progetto «bis» che ha riscontrato l’interesse internazionale, esposto alla Biennale di Seul, a quella di Pisa e finalista al World Architecture Festival 2017 di Berlino.
Il «laboratorio Messina»
Trasferimento di cubature edilizie, rigenerazione di un tratto costiero e sua riconnessione alla città anche tramite nuovi lotti residenziali, dunque. Ma non c’è solo un «modello Messina», c’è anche un «laboratorio Messina»: la riappropriazione di spazi periferici abbandonati o dismessi come laboratorio di un’architettura partecipata. Riconoscere l’autodeterminazione degli abitanti, non più soggetti passivi, ma protagonisti delle trasformazioni territoriali di appartenenza, questa l’altra scommessa della città dello Stretto di cui ci parla Pier Paolo Zampieri. E qui, più che sui singoli episodi (quattro selezionati tra un centinaio segnalato dai cittadini) di rigenerazione di ambienti di vita qualificati, a cominciare dal caso pilota La Palmara che prevede la trasformazione di un posteggio ridotto a discarica abusiva in un campo giochi, la riflessione s’incentra sulle modalità e qualità delle prassi con cui si attuano questi processi partecipati. La scommessa, però, di incidere significativamente l’immagine sbiadita, se non proprio mortificata, di un quartiere, fa leva sull’intenzione di innescare processi di appartenenza identitaria. Un processo da maneggiare con cura proprio perché indotto, mentre «il grado di appartenenza di un individuo alla comunità si valuta proprio sulla sua personale adesione a questo sistema di simboli (emblemi della memoria collettiva, ndc.), radicato su quello spazio di vita che è il territorio» (Carlo Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, il Mulino, Bologna 2014).
L’identità, quella autentica, non può allora che essere un fenomeno spontaneo e non «provocato» dall’esterno, per non finire in un nuovo scollamento tra residenti e spazi urbani che occupano, o in «nuove retoriche», per usare le stesse parole di Zampieri. In assenza di quei simboli di cui parla Tosco, che ogni gruppo «elabora e difende come emblema della memoria collettiva», può, allora, bastare la volontà dei cittadini di affrancamento da un contesto degradato?
La realtà è che esperimenti dall’alto valore sociale come questo vanno a confrontarsi con una società fortemente sradicata come quella messinese che, combinandosi con l’assenza di investimenti pubblici nella fondamentale pratica della manutenzione, abbandona all’incuria anche i pochi spazi riqualificati nel centro stesso della città. Per restare a un esempio di area ludica come quella prevista a «La Palmara», prendiamo quella realizzata solo qualche anno fa nel basso Torrente Trapani, oggi abbandonata a vandalismi, ancora più odiosi perché in una delle rare aree cittadine ritagliate ai giochi dei bambini.
Messina è la città che demolendo ciò che restava di un palazzo del ‘700 – miracolosamente scampato al 1908 – per lasciare spazio proprio a una di quelle torri bocciate dal Comune, sembra aver chiuso definitivamente la sua partita con una «memoria collettiva» da cancellare a colpi di ruspa e a salvaguardare la quale, invece, ha tuonato il non messinese, non siciliano, Vittorio Sgarbi, assessore ai Beni culturali, minacciando di voler trasferire un soprintendente, cosa che non si erano mai sognati i suoi predecessori di fronte a fatti persino più gravi.
E allora in un clima di diffuso disordine urbano che conferma la teoria delle finestre rotte, modelli e laboratori, pur virtuosi, come possono sottrarsi dal restare ingabbiati nell’ennesima retorica?
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ritratti di città , sicilia , territorio fragile
Last modified: 20 Aprile 2018