Visita al grandioso edificio firmato Herzog & de Meuron. L’Elbphilharmonie di Amburgo si è fatta attendere 15 anni ed è costata molto più del previsto (789 milioni), ma ne è valsa la pena
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Amabile dimora
Non è semplice scrivere un pezzo sul grandioso edificio targato Herzog & de Meuron contenente la nuova filarmonica senza seguire l’impulso di fare riferimento alla monumentale produzione mediatica che ne ha accompagnato le sue fasi di progetto e costruzione negli ultimi quindici anni (2001-2016). Ci si potrebbe fare infatti esclusivo riferimento, elencando in una sorta di litanie profane tutti gli epiteti che sono stati coniati, freschi di creazione o di rimando efficace a un passato e a una tradizione condivisi, dai suoi sostenitori e detrattori, in egual misura e proporzione. Preferisco riprendere unicamente il commento della recentemente scomparsa senatrice alla cultura Barbara Kisseler, che l’opera la volle fortissimamente volle e che a distanza di un mese da quando l’avevo letto, oggi che visito di persona Amburgo, è balzato nuovamente in cima ai ricordi non appena ho compiuto la personale ascesa mistica attraverso il corridoio su scala mobile, il cosiddetto “Tube” fino alla terrazza (“Plaza”) a 360° sul mondo, oltre i confini della città: Wie lieblich sind Deine Wohnungen, Herr Zebaoth (Quanto sono amabili le tue dimore, Signore Dio dell’Universo! – Salmo di Davide, 84, IV mov. del “Requiem Tedesco” di Johannes Brahms, illustre amburghese).
Esperienza trascendente
Perché salire all’Elbphilharmonie attraverso la scala mobile a unica campata leggermente convessa, in circa tre minuti di assoluto silenzio e per 82 metri che mai permettono d’intravederne la fine, fra pareti di un bianco reso accecante di paillette di vetro, è davvero un’esperienza che ha del trascendente e che risveglia forti suggestioni cinematografiche e di luoghi di culto destinati all’esecuzione musicale ma anche sentimenti meno terreni. Cercherò di descrivere come il visitatore può compiere questa continua ascesa.
Per chi arriva all’Hafen City Hamburgs con la linea gialla U3 della metro, l’esperienza dell’apparizione improvvisa del profilo dell’Elphi, lasciatisi alle spalle gli edifici della città storica un tempo contornata di mura e terrapieni di difesa, inserita fra quelli di recente, parallela costruzione degli isolotti sull’Elba, è di lenta ascesa emotiva: come a dire che l’animo del visitatore è già predisposto alla scoperta di qualcosa di bello ma non è ancora pronto – direi – alla sua unicità, ovvero alla sua strabiliante capacità di dialogare con ogni singolo elemento che la contorna, ben al di là degli elogi magari letti sulla stampa internazionale. La cima dell’edificio, il riflesso delle sue superfici quasi totalmente vetrate, permettono ora di pregustare un sentimento più completo di scoperta imminente, man mano ci si avvicina percorrendo il ponte pedonale della fermata Baumwall, di una nuova frontiera dell’architettura pur ricca di forti, fortissimi rimandi al passato (e a quanto la circonda).
Gesamtkunstwerk da primato
L’Elbphilharmonie è la quarta dimensione che si fa costruzione nella sua più perfetta accezione di arte sociale e/o arte totale: Gesamtkunstwerk. Essa è funzione più suggestione di memoria non solo wagneriana. È un luogo aperto a tutti, amanti della musica sinfonica e curiosi visitatori profani. È incontro della città dei docks, la suggestiva Speicherstadt Hamburg, della tanto brutale quanto affascinante città portuale, con la natura fortemente antropizzata del lungo estuario dell’Elba in direzione Mare del Nord, di cui riflette colori e sfumature. È – mi si conceda – il forse banale dualismo caro alla nostra memoria scolastica, cattedrale profana, atta ad accogliere forse la più nobile arte concepita dell’uomo, la musica, in cerca di un contatto con un solo ipotizzabile silenzio cosmico nello spazio fra le sfere celesti.
La Libera Città Anseatica di Amburgo diede d’altro canto i natali ai fratelli Mendelssohn Bartholdy oltre che al già citato Brahms, ospitando a lungo anche il più celebre dei figli di Bach, il successo del grande Georg Philipp Telemann, i più recenti di Ligeti e Gubaidulina, persino i primi passi dei giovani Beatles. Tutto ciò aveva bisogno di essere espresso ed ospitato in un nuovo tempio della musica che fosse all’altezza della fama dei nomi e dei personaggi citati e della colossale, coraggiosa, lenta opera di ricostruzione della tristemente prima in classifica fra le città tedesche più devastate dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, oltre che più popolosa città europea non capitale e prima per reddito pro-capite in tutta la Bundesrepublik Deutschland.
Molti primati che dovevano essere resi in maniera al contempo discreta ma grandiosa come consono al Vecchio Continente e a una cultura basata su principi rigorosamente luterani. Come realizzare un ponte fra la città dei commerci per via d’acqua, gli austeri campanili delle turrite cattedrali nordiche del fronte sud cittadino e atta ad ospitare l’esecuzione dei Salmi esultanti del profeta Davide? L’architettura del duo svizzero H&dM ha dato qui egregia risposta a questo bisogno e alle aspettative degli amburghesi, ancorché scioccati dai costi dell’esecuzione di un progetto per questo osteggiato e controverso fino all’ultimo secondo precedente la sua apertura al pubblico, l’11 gennaio 2017, e che oggi non può essere altro che un vanto per l’elegante città-stato nordeuropea, facendola balzare improvvisamente non solo al primo posto della classifica mondiale delle città della musica, ma incoronandola “città democratica della musica”. Amburgo “città libera”, come recitano il suo motto e il suo nome, perché democratica per statuto ed architettura (si consiglia la lettura della bellissima intervista a Jacques Herzog sullo “Spiegel” nell’ottobre 2016). Insomma, città per tutti.
Infiniti rimandi
All’esperienza personale di scoperta del visitatore, al suo puro piacere panoramico e visivo, si possono aggiungere, come contrafforti che l’abbracciano, gli infiniti rimandi a un prestigioso patrimonio architettonico-artistico condiviso. Il primo, il più ovvio e riconoscibile, alla Filarmonica berlinese di Hans Scharoun, di cui riprende suggestioni di architettura organica nel senso wrightiano ed espressioniste europee nelle forme, nonché tese alla creazione di uno spazio reso appunto democratico dalla garantita, uguale godibilità dello spettacolo sonoro-musicale da qualunque ordine di posti il pubblico lo ascolti: dal più caro (il più vicino) al più economico (a distanza massima di 50 metri dal direttore d’orchestra). E sempre da Scharoun riprende l’organizzazione spaziale a mo’ di valle – non unidirezionale verso il palco – ma asimmetricamente concentrica, come in un abbraccio naturale. Organizzazione qui resa ancora più interessante, grazie ai modelli del celebre tecnico giapponese Yasuhisa Toyota (noti per molti altri auditorium della musica, non ultimo quello a Los Angeles, con Frank Gehry, per la Walt Disney Concert Hall), incaricato del progetto acustico della sala, nella composizione a Weinberg, ovvero a terrazzamenti, tutti orientati verso lo stesso sole anche se su diversi livelli.
Poi, il tema della copertura ondulata (ancora da Scharoun). L’idea di un’organicità dell’architettura tanto nella sua dimensione introflessa – e dunque nell’organizzazione degli spazi in primis destinati all’ascolto e alla riproduzione musicale – quanto in quella estroflessa, discreta e spettacolare insieme che, come in un esercizio materico di arte della fuga trasposta in architettura, espone un tema dominante, iniziale, nel basamento svuotato dell’emblema cittadino (insieme a Michel) del Kaispeicher A e le sue facciate inglesi, dickensiane in mattoni rossi. Tema ripreso contrappuntisticamente in altezza e abbellito nelle strepitose vetrate (di manifattura italiana come molti altri eleganti elementi d’arredo), ora aperte, ora leggermente convesse, perennemente illuminate, che generano al tramonto effetti cromatici unici e tavolozze di arcobaleno, del corpo superiore, con le sue onde di studio di funzione matematica, le sinusoidi in orizzontale, e la cadenza finale del tetto, in picchi e asintoti, con le bianche, riflettenti gigantesche paillette disposte sulla cima di creste d’onda in apparente continuo movimento, da qualunque direzione le si ammiri, soprattutto se si giunge con un vaporetto quasi veneziano da sud-est.
La copertura, in questa riproduzione materica della Kunst der Fuge bachiana o alla Buxtehude (il suo favoloso maestro che qui fra le città anseatiche era di casa), è proprio la conclusione della cadenza finale in cui tutti gli elementi, dell’architettura in sé e del suo contorno, si rincorrono, specchiandovisi contrappuntisticamente. Il soggetto che prelude col suo ingresso nella composizione di base alla fioritura finale, quello che in musica è il tema semplice, scarno che andrà ripreso, ampliato, abbellito fino alla sua esplosione nella canne dell’organo monumentale (qui a 65 registri!) diventa nella nostra architettura il visitatore stesso, oggettivante, con la propria esperienza diretta, uno spazio condiviso e volutamente democratico. Chiunque, proprio come nella Tate Gallery sempre di H&dM a Londra, può munirsi seduta stante, nelle biglietterie al piano terra, di una carta d’ingresso gratuita, perché si sente calamitato verso l’alto, lungo il “Tube”, incoraggiato a scoprire quella terrazza a 360° che già intravede dal basso col suo fenomenale arco di cattedrale volto a Nord. È la cosiddetta “Plaza”, una piazza aperta, estesa quanto quella centrale del Rathaus Hamburg, a 37 metri di altezza da dove si può godere l’artificio architettonico in sé dal suo interno, il panorama sul mondo circostante a perdita d’occhio e lo sposalizio perfetto dei due, nonché luogo di transizione; quasi una feritoia rispetto alle dimensioni del resto, fra il basamento in mattoni e lo sviluppo sovrastante in vetrate; fra la solida aderenza al terreno, al tangibile e materico, a squadra, e il non-materico del cielo, dei riflessi dei raggi solari, delle onde dell’acqua dell’Elba e dei suoni sovrastanti sulle onde dei vetri in apparente, perpetuo movimento anch’essi. Una spettacolare suggestione. Qui, in questo luogo di sosta o di arrivo, quinte sceniche spigolose, come in un film di Fritz Lang, o abbacinanti di silenzi come in Stanley Kubrick; o ancora, insieme, curve-quasi viventi e colonne sbilenche come in un capolavoro di Robert Wiene o nel Golem (1920), con scene di Hans Poelzig e nella sua celebre Großes Schauspielhaus a Berlino; qui squarci sulla copertura che permettono d’intravedere le rampe sovrapposte dei livelli superiori del foyer, luci puntuali ripetute a intervalli uguali che guidano lo sguardo (sopra), i piedi (sotto) e offrono ancora riflessi e momenti di riflessione.
Accanto si dipanano ancora organicamente i differenti spazi di servizio, che numerosi questa architettura ospita: l’ingresso all’hotel 5 stelle-lusso “The Westin” chi si apre sul lato est dell’edificio più con le vetrate che coi timidi balconi a veranda; il bar/caffè che si affaccia sulla città storica sul lato opposto del trapezio; la rampa nascosta di scalette che scendono al ristorante di lusso dal punto di degustazione birre artigianali; il negozio di souvenir, libri e cd; gli ascensori che conducono ai 150 posti dei Kaistudio per lo studio, gli eventi e workshop a tema musica sperimentale, così come ai 7 piani per 500 posti di parcheggi nel basamento e infine ai 44 appartamenti di lusso, personalizzati da celebri designer.
Perché anche la Plaza è uno spazio di transizione fra l’immanente di queste attività e il trascendente della musica veicolato dalle due rampe che conducono alle due rispettive sale che la dovranno ospitare: la grande, 2.100 posti, con l’ormai celeberrimo riflettore del suono sovrastante e i pannelli in gesso sulle pareti, progettati dall’equipe giapponese uno diverso dall’altro, alla ricerca della perfezione acustica; e la piccola, per la musica d’insieme e da camera e piccoli ensemble, di capienza variabile di circa 550 posti – proprio come per la Filarmonica Berlinese.
Non di solo pane vive l’uomo
L’Elphi pare una piccola città futurista indipendente. Essa richiama quei progetti in altezza pensati dagli utopisti del secolo scorso, con le sue forme organiche (1.100 finestre/elementi di rivestimento esterno in vetro singolarmente stampati anche loro l’uno diverso dall’altro e con un proprio differente retino di punti cromatici grigi) che abbracciano il cuore pulsante della musica.
C’è chi dice ancora non ne sia valsa la pena: quasi 789 milioni è costata la realizzazione, e la chiama appunto ancora “Millionengrab”. C’è chi ha sperimentato che l’acustica non è poi così eccezionale, benché sia noto alla fine della prima prova ufficiale, i professori d’orchestra siano esplosi in un pianto collettivo come dopo una forte, coinvolgente scossa emotiva. C’è chi ne critica l’eccesso di lusso.
Ma c’è anche chi già la ama, e non può sfuggire a una celebre constatazione: “non di solo pane vive l’uomo”.
La carta d’identità del progetto
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germania , Herzog & de Meuron , rigenerazione urbana
Last modified: 25 Aprile 2017
[…] Sono trascorsi due anni dalla nostra ultima visita per l’inaugurazione dell’Elbphilharmonie di Herzog & De Meuron. Rivederla oggi, percorsa la nuova passeggiata lungo l’Elba di Zaha Hadid Architects, lascia […]