Il dibattito sul Ddl nazionale sul “Contenimento del consumo del suolo” in discussione al Senato prosegue con il parere di Massimo Pica Ciamarra, già vicepresidente IN/ARCH
Il contenimento del consumo del suolo risponde ad esigenze elementari ed incontrovertibili anche per chi non conosce i dettagli del drammatico evolversi dei dati, specie quelli degli ultimi anni. La rapida approvazione del Disegno di legge in corso è quindi preziosa, benché non sufficiente. Oltre ad affermare principi ed indirizzare le leggi urbanistiche regionali verso forme più evolute e coordinate, è però indispensabile il rapido riordino dell’intera materia che una buona volta leghi piani e progetti, urbanistica e architettura. Più che altre leggi di settore o su singole questioni, occorre una visione sistemica capace di portare a “testi unici”, agili in se stessi e nelle procedure per perfezionarli.
Mi limito a segnalare – in forma necessariamente sintetica e spero non troppo ermetica – alcune linee di azione apparentemente lontane, che di fatto incidono sul contenimento del consumo di suolo.
1. Conoscere il territorio per come è e per come si evolve, con aggiornamenti periodici e monitoraggio di quanto man mano interviene. Gli enti locali – meglio se in forma aggregata – vanno impegnati a provvedere, in tempi definiti, alla rilevazione coordinata dei loro territori su supporto GPS. Oggi le tecnologie consentono di documentare – e di mettere a disposizione di tutti – lo stato di fatto ed ogni informazione relativa via via disponibile (dati geologici e idrogeologici, o relativi a zonazione e micro zonazione sismica, a usi agricoli e inerenti ogni forma di vincolo -archeologico, paesaggistico, ecc. – ogni dato, ogni forma di piano in vigore, ecc.). La conoscenza integrata, la connessione di tutti i dati disponibili, evidenzierà relazioni preziose – molte anche impreviste. Ridurrà anche il “consumo di tempo”: produrrà agilità, certezze e semplificazione amministrativa perché qualsiasi piano, norma o programma successivo sarà sempre comunque noto a tutti ed espresso su basi unificate. Riportare a unità “conoscenza” e “previsioni” è sostanziale.
2. Eliminare quanto magari inconsapevolmente contrasta con gli obiettivi che si affermano. Apparato normativo e procedure che regolano i processi di trasformazione del territorio a volte addirittura ne ostacolano il miglioramento. Un esempio fra tutti, il DM 1968 che avviò la stagione della classificazione in zone omogenee, dei requisiti minimi, degli standard tesi a garantire numeri eguali anche in condizioni estremamente diverse: all’epoca aveva senso, da tempo non più. Molte regolamentazioni generali e specifiche impongono limitazioni o standard impropriamente riferiti alla cubatura dell’edificato ed a “lotti isolati”: compito degli strumenti urbanistici è anche quello di articolare relazioni fra i singoli interventi.
3. Non più misurare gli interventi in termini di cubatura: non solo non ha alcun senso, ma produce conseguenze negative, a volte di fatto ha anche espulso funzioni. Esprimere gli indici di edificabilità in termini di superficie netta utile aiuta nella gestione del territorio, fornisce certezze, libera energie creative. Favorire la massima flessibilità: non ha senso controllare le destinazioni d’uso od opporsi a mixité e conversioni funzionali (se non per alcune effettive incompatibilità ambientali). Il consumo di suolo si riduce favorendo la compattezza dell’urbano, l’integrazione fra attività, le densità elevate (ben supportata da evolute forme di mobilità), la rigenerazione edilizia ed urbana. Così l’eco-compatibilità per quanto riguarda energia, emissioni, ricicli; la sostenibilità ambientale in termini energetici, economici e sociali; la mobilità di prossimità e la creazione di reti di “luoghi di condensazione sociale”, utili a ridare senso all’urbano.
4. Convertire la normativa edilizia ed urbanistica in termini prestazionali; trasformare le “norme” di settore in “raccomandazioni”; sostituire le indicazioni di misura (anche se minima o massima) e quelle di “distanza” fra gli edifici, ecc. con specifiche valutazioni dinamiche, legate anche alle materie costitutive e tese ad incentivare la qualità dello spazio “non costruito”. Lo si sostenne tempo fa con il “Manifesto di Firenze” della Fondazione italiana per la Bioarchitettura e l’antropizzazione sostenibile dell’ambiente: l’ottica stessa del proporzionare / dimensionare i fabbisogni va modificata, resa più evoluta rispetto alle banali quantificazioni normalmente adottate, anche sostenendo forme innovative di conversione / riqualificazione dell’esistente.
5. Mutare l’approccio alle singole trasformazioni degli ambienti di vita: non più da valutare solo o essenzialmente in se stesse ma soprattutto per quanto incidano sull’ambiente, sul paesaggio (naturale o artificiale non importa) e sulle complesse stratificazioni che identificano ogni punto dei nostri così particolari territori.
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consumo di suolo
Last modified: 9 Novembre 2016