Riceviamo e pubblichiamo una lettera a margine di una visita alla Biennale di Venezia in rapporto ai suoi spazi fisici
Se il disegno di architettura può essere un aforisma (e “l’aforisma è uno strumento di comunicazione rapida di pensieri lenti”, Beniamino Servino in “Viceversa”, n.3/2015), forse lo può essere anche una fotografia di architettura o, quantomeno, ritengo fermamente che lo sia quella scattata da Andrea Sarti della cupola della Sala Chini nel Padiglione centrale ai Giardini in occasione della Biennale di Architettura del 2014, nella quale viene rappresentata (ed ulteriormente propiziata) l’eclissi dell’architettura classica a seguito dell’avanzare rivoluzionario di quella postmoderna.
A distanza di due anni, alla Biennale del 2016 il sintetico simulato azzurro offerto dalla piatta pannellatura a maglie quadrate della tecnologica controsoffittatura come surrogato del profondo blu orlato e costellato d’oro degli otto spicchi ogivali affrescati dal Chini si è dissolto nel nulla: in alto nella sala aleggia un vuoto buio; in basso la luce illumina un nuovo anello costruito da sottili corsi di tavolette-mattoni di cartongesso che nel suo erigersi pretende questa volta di sovrapporsi e sostituirsi all’antico tamburo della sala, il quale oggi come la cupola due anni fa, sembra opporre una silenziosa e nobile resistenza. Tuttavia a poca distanza, nella sala d’ingresso alle Corderie dell’Arsenale, il nuovo basamento sembra essere riuscito a traguardare la quota anelata per ottenere la propria copertura: una distesa compatta e fitta di profili metallici strutturali per pareti in cartongesso, come innumerevoli spade di Damocle, pendono dall’alto formando una massa ambigua nella quale le quattro antiche colonne della sala sembrano, in virtù di un effetto ottico al contrario, sprofondare contro le leggi della forza di gravità; più che un messaggio il coperchio metallico sembra esprimere un monito sopra le teste dell’umanità se non verranno risolti gli enormi problemi ambientali che gravano sulla Terra. La speranza risulta così appesa a fili d’improbabile consistenza, mentre l’architettura sembra dispersa in un immenso oceano d’immagini, flussi, diagrammi, numeri, riflessioni, ideologie riciclate, intendimenti sinceri, intendimenti retorici e piccole isole felici.
Ma ad un tratto, inattesa, in uno spazio candido di un bianco materico morbido, antico ed attuale, ecco riappare di nuovo la cupola ottagonale, questa volta plasmata da Brunelleschi, in scala ridotta, sempre a metà, ma per rivelazione voluta dal suo costruttore contemporaneo (Renato Rizzi, ndr); e nel dettaglio si condensa e manifesta allo sguardo una nuova vivifica prospettiva: un nuovo globo d’oro spinto da un nuovo moto rivoluzionario ruota intorno all’antico globo del Verrocchio.
Lo smarrimento e il buio appartengono a noi, non all’Architettura.
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Last modified: 30 Settembre 2016