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Michele RodaWritten by: Progetti

Schaudepot, scrigno sobrio e riservato di Herzog & de Meuron per Vitra

Schaudepot, scrigno sobrio e riservato di Herzog & de Meuron per Vitra

Visita all’ultimo gioiello del campus Vitra, griffato ancora Herzog & de Meuron: un po’ magazzino, un po’ museo

 

WEIL AM RHEIN (SVIZZERA). C’è una nuova attrazione in quel grande luna park dell’architettura contemporanea che è il Vitra Campus. Ha un aspetto sobrio, all’esterno offre solo facciate cieche rivestite in mattone, ricorda una chiesa ad una sola navata con tanto di sagrato, sembra rinunciare a qualsiasi richiamo archi-identitario. Un linguaggio inaspettato, anche tenendo conto che i progettisti – Jacques Herzog e Pierre de Meuron – soltanto pochi anni fa (era il 2010) hanno costruito a poche centinaia di metri il VitraHaus. Là un edificio iconico e disarticolato – giocato sulla sovrapposizione di 12 volumi allungati a capanna ad evocare la sezione di un’abitazione tradizionale – che inquadra con le grandi vetrate porzioni diverse di paesaggio.

Qua – siamo sul lato sud-ovest, a poca distanza dal fiume Reno che segna il confine con la Germania – lo Schaudepot rende ragione al suo nome (deposito d’esposizione) chiudendo, come uno scrigno riservato, e forse anche geloso, i pezzi della collezione permanente Vitra: 7.000 mobili, 1.000 lampade, archivi di designer tra i quali Charles & Ray Eames, Verner Panton e Alexander Girard. «La trasparenza è sopravvalutata di questi tempi», le parole di Herzog e de Meuron sono una dichiarazione programmatica. Ai mattoni di clincker, spezzati uno ad uno a mano a realizzare una texture particolare e sorprendente, è delegato il ruolo di discrimine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Obiettivo a cui tende anche la sottile copertura a capanna, con la sua forma archetipica.

C’è un radicale cambio di sensibilità tra il VitraHaus e lo Schaudepot che corrisponde, almeno in parte, con il ripensamento dei paradigmi dovuto alla crisi che il mondo occidentale sta attraversando. E infatti la prima volontà del capo di Vitra, Rolf Fehlbaum, era di realizzare, per le sempre più impellenti esigenze di conservazione ed esposizione dei suoi archivi, un ampliamento del livello interrato in continuità con l’esistente.

L’intervento degli architetti basilesi è stato decisivo per convincerlo che un edificio fuori terra, al posto di un volume industriale, sarebbe stato più economico. Con queste premesse nasce un intervento ibrido già nel programma funzionale: un po’ magazzino, un po’ museo – su una superficie di 1.600 mq ospita 430 pezzi -, permette una visita “tradizionale” della collezione permanente ma anche (attraverso aperture, finestre e vetrine appositamente pensate) di poter gettare uno sguardo su quelle parti di archivio non fruibili direttamente, oltre che in alcuni uffici. Un modo per entrare nel cuore stesso di Vitra, attraverso un percorso iniziatico, come spiega Mateo Kries, direttore del Vitra Design Museum: «Un volume semplice come una chiesa antica. L’architettura dovrebbe rappresentare l’idea che questo edificio conserva qualcosa di prezioso».

Ibrido è anche il contrasto tra la durezza della facciata esterna e la trasparenza interna dell’allestimento, volutamente a-gerarchico, con scaffalature in serie, disegnate da Dieter Thiel, su cui vengono stoccati (più che esposti) i pezzi di arredo. Anche grazie alla griglia di neon posizionati a soffitto è una modalità che smorza la sacralità che l’architettura della grande aula tende a comunicare.

Infine è ibrido il rapporto con l’esterno, che sembra negato dalla forma architettonica ma che in realtà è fortemente presente in quanto il nuovo edificio è il tassello necessario per realizzare un nuovo ingresso al Campus, verso la città di Weil am Rhein e direttamente collegato con Basilea grazie ad un percorso ciclo-pedonale. Così l’edificio di Herzog & de Meuron, arricchito anche da servizi quali una caffetteria e un piccolo negozio, inconsapevolmente o meno, si pone come corpo centrale di un dialogo architettonico e sfondo di una piazza ideale, elevata su un podio a realizzare una scenografia rinnovata con la stazione dei pompieri di Zaha Hadid e gli edifici produttivi di Alvaro Siza.

 

vitra.com
design-museum.de

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 25 Aprile 2017