VENEZIA. Brasile. Lo scarto diventa poetica, tanto nella scala architettonica quanto in quella urbana, seppur con diversi gradi di successo e integrazione. La sfida è evidente e riguarda la capacità/possibilità di trarre dalla variegata amalgama di frammenti che costituiscono il palinsesto territoriale elementi utili alla costruzione di una fisionomia riconoscibile, che sia nella direzione carnascialesca e quasi gaudì-niana promossa da Gabriel Joaquim dos Santos (1892–1985) oppure in quella razionale, composta di Lina Bo Bardi (Roma, 1914-San Paolo, 1992).
La prima sala dell’allestimento pone così architettura e urbanistica allo specchio. Cosa sono le città e le megalopoli del Brasile? E’ il loro tessuto prossimo a quello della Casa do Flor di dos Santos o a quello della casa di Valeria Cirell di Lina Bo Bardi? La risposta è affidata all’interpretazione del visitatore, mentre il padiglione annuncia le città come frontiere irrisolte, in cui “l’agenda urbanistica è ancora incipiente e anacronistica” e polarizzata tra momenti e spazi di autoritarismo e, al contrario, tempi e ambiti di caotica deregolamentazione e laissez faire a San Paolo come a Rio. A questo dualismo fanno riferimento le fotografie sul lato sinistro dell’ingresso, a pendant con quelle delle architetture citate sul lato destro.
Così rappresentata la situazione di fatto, il secondo spazio del padiglione espone in quindici progetti innesti urbani di riqualificazione sociale, con fotografie e plastici e stratificazioni di poster che, lasciati alla libera sottrazione dei visitatori, dovrebbero arrivare poi a costruire una nuova orografia del piano dell’esposizione, così come i rispettivi interventi ambiscono a definire, progressivamente, un nuovo paesaggio.
Nonostante un’esposizione che amplifica la propria visibilità anche grazie ai poster colorati che emergono, arrotolati, dalle sacche dei visitatori tra i viali della biennale, la proposta del padiglione appare timida già nella sua introduzione, con un riferimento a Bo Bardi che non riesce pienamente a svelarne la cifra, trascurando i progetti che più degli altri s’impongono come forma e costruzione sociale, come il SESC a San Paolo o ancor più la chiesa di Espírito Santo do Cerrado a Uberlandia (1976-1982), di cui anche il cantiere fu un autentico condensatore sociale.
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Last modified: 1 Giugno 2016
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