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Davide BorsaWritten by: Progetti

Se queste sono proposte «migliorative» per Brera…

MILANO. Nell’effettivo vuoto pneumatico d’idee e progettualità nel rappresentare la vocazione di un museo contemporaneo si vorrebbe raccogliere l’eredità spirituale della missione che Bruno Contardi aveva assegnato a Brera indicando palazzo Citterio come Museo di domani. L’indietro tutta espresso dalle mezze misure con cui si è affrontato il problema, non certo insormontabile, di ridare un assetto decoroso a istituzioni, musei e collezioni di Brera, ha ottenuto il risultato di potere finalmente affermare che l’operazione è riuscita ma il paziente potrebbe morire.
Il che la dice lunga sulla lungimiranza delle scelte: con sconcerto e ritardo si scopre che, solo dopo estenuanti trattative con il ministero della Difesa (che rifila al Mibact una spesa di 1 milione per ricollocare a nuovo l’archivio), oltre alla maggioranza delle caserme milanesi è in pratica in esubero la quasi totalità del patrimonio pubblico (per tacere di quello privato dismesso), per cui sarebbe auspicabile una nuova destinazione pubblica che preveda anche rinnovate e nobili funzioni socioculturali.
Quando il modello delle grandi opere si applica anche a quelle che grandi non sono esse rischiano, dopo 50 anni di vana attesa, di diventare operette. Come giustificare le spericolate iperboli verbali che debbono sostanziare la certificazione dello status quo nel quale sprofondarono, oltre al miliardo per l’acquisizione, anche i 23 miliardi del Lotto e gli 8 della Fondazione San Paolo per un museo che doveva essere pronto nel 2002? Con il progetto «preliminare» del soprintendente Alberto Artioli con Annamaria Terafina, «l’unica sostituzione avviene nel nuovo corpo scala in luogo delle scale in cemento armato dell’intervento Ortelli e Sianesi [con] la scelta di introdurre un volume che contenesse corpi scala e ascensori». E difatti oggi il mondo dei musei milanesi è fatto, più che dalle idee di curatori e architetti, da scale, ascensori e nuovi ristoranti, i veri regolatori dei flussi del pubblico pagante. Non si fa altro che parlare di questi elementi, dalla Villa reale di Monza (demolizione corpo scale, ristorante belvedere, spa), alla Stazione centrale (selva di scale, ristoranti nel mezzanino, shopping compulsivo), al Castello Sforzesco (ristorante belvedere nella Rochetta), al Museo del Novecento (nuova scala monumentale, rampe mobili di ser- vizio, doppio ristorante), al Teatro lirico (ristorante belvedere sul tetto con vista sul palco!). Altro mantra, il vetro e la trasparenza, nonostante ora richiamino più l’Apple store e l’autogrill che non Mies. Quello che viene spacciato spesso con la neutralità e il moderno è ora solamente indice di sciatteria provinciale.

Il bando
Il gramo orizzonte non ha impedito una generosa partecipazione di «local architects» al bando internazionale della Direzione regionale dei Beni culturali per i lavori di palazzo Citterio, che consisteva nel fornire «proposte tecniche, funzionali e formali» al progetto «preliminare» di restauro e recupero funzionale steso dal tandem ministeriale (parimenti schierato nell’im- pegnativa sfida della Villa reale di Monza). Nonostante il successo (13 imprese italia- ne), nessuna presenza internazionale. Il direttore regionale Caterina Bon si giustifica chiamando in causa il Codice degli appalti: «inadeguato ai Beni culturali. Non si può trattare un museo come un’autostrada… Complica terribilmente le cose, sia alla stazione appaltante che ai concorrenti», tanto «che le imprese italiane hanno più avvocati che muratori». Ragione di più per cui è bene che l’architettura rimanga agli architetti…

I «progetti»
Paolo Rocchi, cui dovrebbe andare un premio Piranesi per la perturbante rampa, allestisce improbabili interni vintage similcagnardi anni ottanta e applica la matematica «invertendo i criteri degli interventi passati in una direzione decisamente “conservativa” […] mantenere la stratificazione storica che [bontà loro!] conferisce innegabile fascino e unicità al complesso […] nonostante il deciso orientamento “conservativo” e “rilevativo” [?]». Gnosis rispolvera lo strutturalismo d’antan («rispetto del palinsesto in tutte le sue sfaccettature diacroniche e in tutti i suoi segni connotanti») e insieme ad Antonio Citterio e Patricia Viel si segnala per avere inserito nei solai le reti tecnologiche, eliminando coraggio- samente gli orrendi paleotecnici fan coil. Feiffer e Raimondi azzardano l’uso del cemento trasparente e l’applicazione del protocollo Leed HB. Con le indispensabili premesse scientifiche («il restauro conservativo-filologico riguarda i prospetti esterni […]; il restauro conservativo riguarda la cosiddetta Sala Stirling» [ma decisamente non è il suo pezzo migliore…]) arriva il progetto di Amerigo Restucci, poi risultato vincitore nonostante l’imbarazzante sciatteria formale: il pastrocchio, combinato con la complicità di Giovanni Carbonara, già vincitore spodestato a Monza, ci propone rendering orrendi con marziane atmosfere sottovuoto e luci al neon soprannaturali nei quali galleggiano pezzi di straordinaria edilizia corrente; l’ascensore trasparente da autorimessa chic e il giardino formale zen da municipio brianzolo affogati in grossolani cementi armati e vetrerie antiproiettile. Nel nome d’improbabili analogie siamo trasportati dal brutalismo al bruttismo decisamente inguardabile. Come ha potuto vincere? Ma certo, è colpa della legge sugli appalti al ribasso (nello specifico, quello maxi del 38% su 13.593.230 euro di Research Consorzio Stabile che ha all’attivo, oltre alla circumvesuviana di Napoli tratto Torre Annunziata-Pompei, il castello Fienga e i lavori di allestimento espositivo per la Palestra grande negli scavi di Pompei…). «L’architettura è troppo importante per lasciarla solo agli architetti», ha precisato Margherita Guccione del Maxxi. Quindi diamola in pasto ai ribassisti, meglio se iscritti alla Compagnia delle opere. Citiamo allora Cementi romani piuttosto che L’architettura della partecipazione di Giancarlo De Carlo. Da Gai e Fabbri evocano Christian Norberg-Schulz: «Si è trattato di lasciar parlare il genius loci»; pur giovandosi di una generosa sistemazione del giardino la proposta passa, all’ombra di paraventi ricamati in Cor-ten, per essere la più postmoderna («questo schermo traforato, unico segno/non segno del nuovo intervento») e inflazionata. Eugenio Vassallo cita Cesare Brandi: «Ogni qual volta la distinzione strutturale tra segno e immagine si offusca, ciò è sintomo di una grave alterazione, che, per così dire minaccia o inceppa gli ingranaggi della civiltà» – in questo caso inceppatisi più volte. Un progetto delicatamente ironico (il rigatino brandiano, le ammiccanti statue scarpiane) e rispettoso, con scelte intelligenti immerse in un’atmosfera di felice simbiosi con la preesistenza materica, in linea con una sobria e autorevole austerità, che piaceva a Giuseppe Panza di Biumo: «Il museo non deve essere un’accumulazione di arte, non dev’essere un bel magazzino per l’arte. Deve essere un luogo dove, quando si è dentro, si vive in un modo diverso». L’algido Citterio colpisce ancora: «La direzione “conservativa” adottata nell’ambito di una conservazione integrata fra le parti, in vista di un nuovo utilizzo, si applica omogeneamente agli interventi moderni e al palazzo storico»; elegante il risultato dell’abbinamento tra le doghe di rovere e il cemento armato ma l’immagine tra il ristorante minimalista e la boutique di lusso risulta tanto decisa quanto scontata. Misteriosofico Italo RotaUna strana patina ha avvolto i manufatti edili delle varie epoche creando un substrato dai colori desaturati, un fondo tendente a una leggera monocromia»), vuole sedurre con atmosfere francesi: lo chic perbenista addomestica fin troppo il brutalismo ma non la feroce giuria di qualità del MiBACT, forse spaventata dai pavimenti lucidati a cera. Immancabili le parole in libertà: le convergenze parallele di Tortelli Frassoni («espressioni inequivocabili di contemporaneità ma con pacatezza e controllo formale»); le supercazzole di Lorenzo BerniIl progetto è l’innesto di un nuovo layer di “adattatori” capaci di stabilire un contatto interculturale tra lo spazio ereditato e le forme e la tecnologia contemporanee, e che renderà possibile l’uso dell’edificio»); gli imbarazzi teorici da restauro postcritico di Studio Montanariopportune integrazioni dell’apparato decorativo delle sale […] permetteranno di pervenire all’unità di “opera d’arte totale”, ma senza ripristinare pedissequamente gli stucchi e le decorazioni parietali»); l’SOS patrimonio di Da Gai e Fabbri: («salvaguardare tutto ciò che si conserva»). Michele De Lucchi, premio della critica, entra papa ed esce cardinale («Bene con calma e con chiarezza i muri parlano, dobbiamo lasciargli raccontare e far tacere le voci di oggi che non aggiungerebbero niente a una storia già scritta»); la sua ormai collaudata cifra stilistica offre uno studio virtuosistico di sapiente carpenteria per le rampe, che riporta lo scalone all’onore che merita: una soluzione che rimpiangeremo, pur potendo sempre consolarci con i suoi interventi per la ricollocazione della Pietà Rondanini, per il Castello Sforzesco e le Gallerie d’Italia e, ultima perla della collana, per la recente commessa diretta per il belvedere della Villa reale monzese (anch’essa, dopo l’inutile concorso internazionale, personaggio in cerca di autore suo malgrado). Andrea Bruno, raffinato specialista evidentemente poco ispirato (ricorda più la fiera o il passante), dopo un ripensamento si è ritirato dal catalogo e dalla mostra dei progetti.
Occhieggiano gli allestimenti che strizzano l’occhio e rendono digeribile l’impasto; resta la fastidiosa sensazione che la partecipazione in massa, anche delle grandi firme, abbia poi obbligato a una correzione di rotta, per trasformare in kermesse di architettura quello che prima assomigliava più a una manutenzione straordinaria; che si confonda la comunicazione e il marketing con la trasparenza, i conti della serva (al ribasso…) con la sostanza di un progetto che, per quanto presentato con grande pompa alla Triennale e poi al Maxxi, difficilmente vedremo al Moma o alla Cité de l’architecture.

Autore

  • Davide Borsa

    Laureato in Architettura al Politecnico di Milano con una tesi su Cesare Brandi, pubblicata con il titolo Le radici della critica di Cesare Brandi (2000), è dottore di ricerca in Conservazione dell'architettura. È corrispondente del “Giornale dell'Architettura” e ha scritto per “Arte Architettura Ambiente”, “Arcphoto”, “Ananke”, “Il Giornale dell'Arte”. Suoi contributi sono in atti per il seminario internazionale “Theory and Practice in Conservation- A tribute to Cesare Brandi” (Lisbona 2006), per la giornata di studi “Brandi e l’architettura” (Siracusa 2006), per il volume “Razionalismo lariano” con il saggio “Eisenman/Terragni: dalla analogia del linguaggio alla metafora del testo” (2010), per il volume “Guerra monumenti ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale” (2011). Ha curato il volume “Memoria e identità del luogo. II progetto della memoria” (2012). Ha fatto parte dello staff curatoriale del Padiglione Architettura Expo 2015 per il ciclo di convegni Milano capitale del moderno. Presso il Politecnico di Milano collabora alla didattica nei corsi di Storia dell'architettura contemporanea, Teoria del restauro, Composizione architettonica e urbana e ai laboratori di Restauro e di Progettazione architettonica.

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Last modified: 25 Giugno 2015