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Written by: Città e Territorio

Ha ancora senso costruire grattacieli?

new york. Ha ancora senso parlare di grattacielo? E, citando Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di grattacielo? Nel 1920, la Plan Commission di New York, quella che di fatto aveva sposato l’idea del grattacielo perché rappresentava la moderna metropoli, scriveva che «tutti accettano il grattacielo come qualcosa che serve le necessità degli uomini ma lo giudicano in maniera diversa in riferimento al valore del suo servizio». Ovvio e opinabile, ma vero.
Considerando che nel momento della realizzazione del piano dei Commissioners del 1811 (Morris, De Witt e Rutheford, piano attualmente visibile in una magnifica mostra al Museum of the City) e relativi acquisti e concessioni edilizie, l’intera Manhattan apparteneva a un numero ristrettissimo di proprietari, sicuramente, al di là delle enormi risorse economiche che il grattacielo garantiva a chi investiva come sfruttamento indefinito di una parcella edificabile, l’assioma tecnologia e architettura, quale che fosse quest’ultima, non poteva che apparire come la più avanzata delle situazioni possibili. Carica, fra l’altro, di un ottimismo trascinatosi con l’Empire State Building ben oltre la recessione e usato come formidabile strumento propulsivo in termini totali, psicologici e propagandistici. Allora, il brivido delle vertigini delle altezze mai raggiunte sembrava coincidere con un effettivo cambiamento dei costumi. Il movimento non era solo quello simbolicamente e  retoricamente mitologico che l’Art Deco diffondeva quasi futuristicamente. Il mito della macchina era tangibile, dalla diffusione dell’auto al trasporto aereo che tanto incantava Le Corbusier.
Il grattacielo, come inevitabile e unica rappresentazione dello sviluppo e sinonimo del suo secolo, rendeva plausibile un nuovo costruito alle prese con ascensori, riscaldamento, traffico, rumore, velocità… E naturalmente altezze. Allora, tutti obiettivi, o mete, oltre che sfide; una sorta di limite. Allora, prerogativa unica dello sviluppo metropolitano della città americana; oggi, rispetto al contesto americano, una tipologia ancora più avulsa, diffusa a profusione nei vari continenti con l’esaltazione dell’aspetto e della componente più plausibile: la diffusione pubblicitaria di uno status di riscatto economico raggiunto. Con tutte le conseguenze, sul piano formale, di una progettazione come quella attuale: slegata, sul piano generale ed epocale, da qualunque continuità di tipo storico e abbandonata non solo alla forma dell’ingegneria, ma alla «Forma» tout court in grado di soggiogare l’ingegneria.
Nel Burj Dubai, ultimo nato dei Som, è il sistema dell’aria condizionata o impiantistico che incuriosisce, non la sua forma. E non più di tanto. Il problema formale, uno dei più vasti nel panorama della progettazione in generale, permane: e sembra a volte tragicamente concluso, nonostante una tecnologia sbalorditiva e strumenti operativi formidabili come il computer, che sulla forma ha tanto influito. È quella condizione che Ada Louise Huxtable, dal privilegiato osservatorio del «Wall Street Journal» o del «Times», definiva Olimpica e Orwelliana assieme, cogliendo gli aspetti di drammaticità e ironia che la struttura totemica del grattacielo incarna in maniera radicale.
A New York, che assieme a Chicago resta comunque uno dei luoghi di fondazione del grattacielo (ma anche della sua crisi), l’argomento non sembra accantonato; almeno in termini quantitativi. Chi arrivasse a Manhattan dai quartieri della terraferma troverà che il profilo «anatomico» dell’isola si sia modificato e tenda a ricostituirsi come quello ante 11 settembre. La lenta crescita dell’area di Ground Zero rende infatti nuovamente leggibile, a distanza, la ricostituzione di quella sorta di superpropilei che erano le torri gemelle (la cui validità era quasi totalmente assorbita dal loro somatizzato e affascinante valore segnico e iconico), e consente un’analoga lettura dello sviluppo orizzontale dell’isola attraverso i diagrammi della sua verticalità. Con la semplice equazione per cui downtown = inizio (o fine) = alto, la sequenza prolungata e discontinua di midtown = basso in un crescendo che tocca i picchi che precedono Central Park, per poi riabbassarsi nuovamente fino a uptown e Harlem e la sua nuova fine (o inizio). Nonostante i nuovi interventi, la lettura sembra essere la stessa. E avviene quasi unicamente attraverso una tipologia: quella, appunto, del grattacielo.
Volendola intendere come metafora metropolitana, Manhattan sembra comunicare ancora l’inesplicabile continuità di quell’umanità che rappresenta attraverso l’affascinante spettacolo della sua artificiosa ottimistica inesauribilità, in buona parte identificata nell’edificio alto: espressione alla Rem Koolhaas di una magnifica delirante sorta di autocostruzione. Quella esaltata dalla lettura a distanza, come dai notturni apparentemente irreali (e che gli impatti ravvicinati ovviamente modificano). In realtà, New York non è una città di edifici notevoli, almeno quantitativamente; è la griglia a precostituirne l’unicità dell’effetto complessivo. Gli edifici più interessanti sono quelli che, paradossalmente, la negano: il Rockefeller Center, il Guggenheim e, in misura sicuramente minore, il Seagram, molto più interessato all’automonumentalizzazione che all’intorno; oppure sono quelli che approfittano del sito per costituire una formidabile continuità urbana, come il Flatiron.
La sequenza non si esaurisce in questo elenco ma è certo che, sottoposte a un’analisi formale e linguistica e a un confronto visivo a distanza reale, le ultime operazioni in via di realizzazione risultano a dir poco scarsamente interessanti: dal disordine di Times Square «pre-organizzato» al consumo di massa, a quello altrettanto organizzato e in fondo prevedibile, dati gli antefatti, di Ground Zero, per citare solo i più evidenti. Ma il gioco si è spostato anche agli eventi dislocati in altre aree, che vedono fra l’altro la proliferazione di una scelta progettuale e tipologica (quella delle torri gemelle o comunque raddoppiate) che è stata dimenticata a Ground Zero, dove sarebbe stata più coerente, ad aree di non poi tanto futuribili e vasti interventi: dalle gemelle Warner Towers (sempre firmate Som), che seguono l’andamento di Columbus Square il cui maquillage ha toccato anche il piccolo edificio neoveneziano di Edward Durrell Stone, alle neonate e pretenziose torri di Frank Gehry a ridosso del ponte di Brooklyn.
Ma c’è dell’altro. Chiunque volesse verificare un «da vicino» di recente apertura come la High Line (progetto di Diller Scofidio + Renfro), che viaggia a 6 metri da terra fornendo incredibili vedute degli edifici sfiorati di mid e downtown come di altre torri recenti (da Jean Nouvel e Bernard Tschumi) sul fronte del fiume, s’imbatterà nella cartellonistica che preannuncia interventi a tappeto sulle poche aree ormai disponibili sul west side con tanto di torri gemelle dalla paternità incognita disperse nel mare dei masterplan di varia natura che puntualmente invadono la City. Con i loro appetiti. E con immagini precotte. La Ford Foundation e le sue futuribili anticipazioni sull’assimilazione del verde sono lontane. Come se non bastasse, lo Skyscraper Museum ha in corso una rassegna sugli edifici supertall, i super-alti, che mostra una sequenza impressionante di supertorri più o meno tutte vetrate, più o meno contorte, più o meno fuori scala assicurando al visitatore una sequenza d’immagini che manifestano il grado di stanchezza di una progettazione affidata ai costruttori più che ai progettisti, e da questi all’unicità del sistema epidermico e alla convulsione gratuita di un formalismo alla ricerca di se stesso. L’affermazione di Stanislaw Lem, «non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di altri specchi», è qui portata al paradosso. Queste immagini riflesse non aiutano a conoscerci con le nostre incertezze. Quelle che hanno trovato nelle antenne, sempre più presenti e diffuse (anche a Ground Zero, appunto) l’elemento simbolo e il sistema architettonicamente conclusivo adottato come citazione storica e rappresentazione realistica del mondo informatico.
Dove non è importante ciò che si comunica ma il suo volume. Mai come profeticamente anticipato da Manfredo Tafuri in suo lontano scritto, la «montagna è apparsa così incredibilmente e quasi irrimediabilmente disincantata».

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Last modified: 9 Luglio 2015