Il rapporto tra scrittura e architettura è tuttaltro che limpido, oggi più che mai. Scrivere di architettura non è pratica certificata, ad esempio, dalle scuole di architettura dove (specialmente in Italia) luso della parola scritta è divenuto opzionale o convenzionale. La progressiva marginalizzazione delle humanities nella formazione dellarchitetto, del resto, non induce più nemmeno a leggere quella letteratura che pure ha raccontato la città e larchitettura in modi impareggiabili. Non a caso non sono architetti, bensì studiosi di English e Cultural Studies, Sarah Edwards e Jonathan Charley, curatori di uninteressante raccolta di tredici saggi dedicati ai rapporti tra modernità, letteratura, architettura e città (più o meno immaginate), legati in maniera indissolubile fin dal termine architexture. Poeti, romanzieri, narratori in genere hanno descritto le trasformazioni tra Ottocento e Novecento con unattenzione costante ai luoghi in cui sono avvenute, anche perché (è una delle tesi dei curatori) quelle trasformazioni sono parte dellidea di modernità che gli scrittori stessi hanno contribuito a costruire. Da Doris Lessing a Georges Perec, dal disturbanism narrato da Philip K. Dick alla topografia degli incontri sessuali anonimi a Parigi descritta da Catherine Millet o Renaud Camus, la letteratura ha inventato, riconosciuto, descritto lo spazio, quasi senza che gli studiosi di architettura dimostrassero di accorgersene. Un peccato, non soltanto per la ricchezza delle suggestioni, ma anche perché romanzi e racconti (come le canzoni o il cinema) spesso sono lunica fonte, disponibile a chi semplicemente abita i luoghi senza farne oggetto di studio o lavoro, per elaborare scenari e immaginari architettonici o urbani.
Dopo le incertezze della frammentazione postmoderna, una pratica pare riacquistare importanza cruciale in tal senso: se un luogo è percepibile come immagine, la sua descrizione rimane il primo strumento per appropriarsene. Come descrivere quel che si vede è un problema antico: lo racconta bene, ad esempio, Michele Cometa (altro studioso di letteratura
) nella prima parte di un volume di gran fascino, destinato a quel pubblico colto che ancora non ha rinunciato a chiedersi modalità e ragioni delle azioni anche più comuni, come raccontare il visibile: e chi si occupa di architettura e città dovrebbe, in effetti, avere questo tra gli obiettivi prioritari del proprio lavoro, se non altro per riuscire a comunicarne il senso fuori dallalveo degli specialismi.
Ed ecco che, quasi di soppiatto, al lettore avvertito pare riapparire, dietro queste pagine, lo spettro di una creatura mitologica delletà contemporanea, dai poteri taumaturgici poiché inevitabilmente, talora inutilmente, invocata per sanare i mali dellarchitettura: la critica darchitettura, figura misteriosa almeno in Italia, abituata a risorgere dalle proprie ceneri per rivendicare spazi di autonomia che, da un lato, la pratica e, dallaltro, la storiografia parrebbero averle negato.
Dilaniati da battaglie epocali, per trovare un loro posto nel mondo, i critici hanno seguito due strade parallele, producendo sia testi esoterici, destinati a pochi eletti, sia testi exoterici, destinati cioè a un pubblico più ampio. La prima strada interessa pochi, fuori dalle accademie e dai circoli intellettuali più ermetici, ma è quella preferita da giovani critici e architetti à la page, soprattutto in Europa. La seconda strada, invece, è praticata da chi intende comunicare storie, valori e significati degli spazi progettati o costruiti soprattutto a chi tali spazi vive o vivrà, spesso senza averlo desiderato: meno praticata in Europa e quasi per nulla in Italia, tale critica ha invece dato i suoi frutti migliori nei paesi anglosassoni, dove persino la stampa quotidiana ha saputo chiedere a architetti, critici e storici di far da tramite tra i loro saperi e il pubblico più vasto.
A questo universo è dedicato il lavoro di Alexandra Lange che raccoglie in volume, per poi analizzare in dettaglio, sei scritti esemplari di critica. Gli autori e i temi sono assai diversi per storie e geografie: Lewis Mumford sulla Lever House di New York (1952), Herbert Muschamp sul Guggenheim di Bilbao (1997), Michael Sorkin sul Whitney Museum di New York (1985), Charles W. Moore su architettura e città in California (1965), Frederick Law Olmsted sui parchi urbani (1870) e Jane Jacobs su argomenti vari, estratti da The Death and Like of Great American Cities (1961). Quel che tiene insieme queste pagine, allapparenza stravaganti, è soltanto unidea ben definita, che Lange dichiara nellintroduzione: il progetto architettonico e urbano dovrebbe far desiderare di «vivere e mangiare e fare acquisti» in un luogo, piuttosto che evitarlo; il citizen critic è chi riesce con consapevolezza a descrivere, discutere e giudicare un progetto o una realizzazione, nei confronti di un pubblico composto soprattutto da altri cittadini. Gli autori prescelti hanno adottato atteggiamenti diversi (derivati da una lettura formale o funzionale o storica o persino politica dello spazio) conservando sempre, tuttavia, il medesimo entusiasmo comunicativo e argomentativo nel presentare le proprie tesi: comè del resto dimostrato dallanalisi testuale di questi scritti, a prima vista elementari, rivelati poi da Lange come straordinarie macchine di persuasione.
La lettura di questi saggi brevi, antichi e persino un po polverosi, è assai istruttiva, poiché vi si apprende non soltanto come sia utile e difficile, al tempo stesso, scrivere bene di architettura, ma anche quanto sia distante tale pratica dalla maggior parte delle pagine dedicate allo spazio costruito, in libro o rivista, ai tempi nostri. Narrazione, descrizione, interpretazione sembrano termini desueti, con il risultato che la costruzione della città delluomo sarà sempre più estranea ai suoi cittadini, perché meno comprensibile.
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