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Wang Shu, il Pritzker per la prima volta a un cinese amateur colto e sofisticato

Wang Shu, il Pritzker per la prima volta a un cinese amateur colto e sofisticato

Il Premio Pritzker del 2012 è stato assegnato, per la prima volta nella sua storia, a un architetto cinese: Wang Shu, 48 anni, originario di Urumqui, capitale delle lontane regioni occidentali dello Xinjang, ma titolare di uno studio di progettazione con sede nella città di Hangzhou, metropoli di media grandezza a breve distanza da Shanghai.
Evidentemente, rispetto alla consueta predilizione delle giurie del Pritzker per i grandi protagonisti del jet set internazionale, la scelta di Wang Shu rappresenta un significativo cambio di direzione. Nonostante la grande mole di lavoro svolto nell’ultimo decennio in Cina, non si tratta di un nome alla ribalta delle cronache architettoniche nel mondo occidentale né di una stella di prima grandezza sulla scena delle principali città cinesi, e il suo percorso professionale appare piuttosto anomalo anche rispetto a molti dei suoi colleghi cinesi di successo.
Laureatosi in architettura a Nanchino nel 1985, Wang Shu inizia a lavorare presso l’Accademia di belle arti di Hangzhou e per oltre dieci anni si limita ad acquisire esperienza diretta nel campo della produzione a dimensione artigianale e del lavoro manuale. Nel 1997, assieme alla moglie Lu Wenyu, fonda a Hangzhou Amateur Architecture Studio, nel cui titolo il termine «amateur» (dilettante) è considerato equivalente a «artesan» o «craftman». Negli anni immediatamente successivi, la sua attività professionale accelera rapidamente, sia per quantità che per dimensione delle realizzazioni. Il progetto per la biblioteca del Wenzheng College a Suzhou, primo lavoro a grande scala di Amateur Architecture, viene completato nel 2000 e riceve nel 2004 il premio Architecture Art Award of China. Wang Shu realizza numerose opere nelle città di Hangzhou e Ningbo, tra cui il Museo di arte contemporanea e il Museo di storia, assumendo una posizione piuttosto critica rispetto al ruolo dei professionisti dell’architettura nel travolgente e apparentemente inarrestabile processo di distruzione dei tessuti urbani tradizionali delle città cinesi. Per la realizzazione degli edifici dello Xiangshan Campus a Hangzhou, Wang Shu impiega oltre due milioni di tegole in cotto recuperate dalla demolizione di edifici tradizionali. Alla Biennale di architettura di Venezia del 2006 realizza un’installazione che, simbolicamente, utilizza 66.000 pezzi di medesima origine.
Nel 2010 Amateur Architecture riceve in Germania lo Schelling Architecture Prize; nel 2011 viene insignito della Medaglia d’Oro dall’Académie d’Architecture francese; lo stesso anno, Wang Shu è visiting professor alla Graduate School of Architecture di Harvard, primo accademico cinese a ricoprire la cattedra intitolata a Kenzo Tange.
Le motivazioni della scelta dei giurati (tra gli altri Yung Ho Chang, Zaha Hadid, Alejandro Aravena e Glenn Murcutt) insistono sulla particolare sensibilità di Wang Shu nei confronti delle tradizioni: «Le sue opere dischiudono nuovi orizzonti ma allo stesso tempo risuonano dello spirito del luogo e del tempo; hanno la peculiare capacità di evocare il passato senza fare diretto riferimento alla storia. […] Il lavoro di Wang Shu è in grado di trascendere il dibattito, pur cruciale nella Cina contemporanea, attorno alla questione se l’architettura debba essere ancorata al passato o se debba unicamente guardare al futuro: la sua architettura è senza tempo, profondamente radicata nel suo contesto eppure del tutto universale».
Mi sono imbattuto in un’opera di Wang Shu nel 2004 in occasione della prima Biennale internazionale di architettura di Pechino. La sezione dedicata agli interni era ospitata nel cantiere di un grattacielo in costruzione e consisteva di una serie di appartamenti-modello allestiti e perfettamente rifiniti sulla base di progetti inviati da famosi designer cinesi e internazionali (tra cui Denis Santachiara, Matali Crasset, Odile Decq e Didier Faustino) nei primi sette piani dell’edificio. In quel contesto, il progetto di Wang Shu risaltava tra tutti: uno spazio definito da pareti perimetrali bianche e dall’accostamento di sette differenti essenze di legno, ognuna con la sua texture e il suo colore, nelle superfici orizzontali dei pavimenti e negli schermi di separazione degli spazi. La visita all’appartamento modello di Wang Shu rappresentava un vero e proprio viaggio tra le nuance e le sfumature di colore dei diversi legni, tra le luci e le ombre modulate dal delicato congegno progettuale messo in scena dall’architetto cinese. Wang Shu dimostrava evidentemente di possedere la capacità di muoversi con efficacia in una dimensione progettuale colta, sofisticata, di gran lunga più consapevole rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi cinesi di quel periodo (otto anni fa è un’epoca ormai lontana nel tempo, per la velocità con cui si sono sviluppate le città e i dibattiti architettonici in Cina).
Senza considerare le motivazioni «geopolitiche» dell’assegnazione a un autore cinese – giovane, talentuoso e non troppo scomodo (almeno non quanto Ai Wei Wei, per esempio), è evidente che la giuria abbia riconosciuto Wang Shu come uno dei più raffinati interpreti a livello mondiale del rapporto tra architettura e tempo, passato e futuro, tradizione e innovazione. A ogni buon conto, sarebbe stato almeno un gesto di cortesia e galanteria assegnare formalmente il premio anche alla socia, e moglie, Lu Wenyu (dimenticanza già capitata a Denise Scott Brown rispetto a Robert Venturi nel 1991). La giuria, tedesca, dello Schelling Prize lo aveva fatto.

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Last modified: 20 Luglio 2015