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Davide BorsaWritten by: Interviste

Mario Bellini: il vero problema è lo spreco di risorse pubbliche e di lavoro progettuale

Mario Bellini: il vero problema è lo spreco di risorse pubbliche e di lavoro progettuale

Il nuovo quartier generale della Deutsche Bank a Francoforte e il Museo della Storia di Bologna a Palazzo Pepoli hanno avuto aperture di grande successo; il Dipartimento delle Arti islamiche all’interno del complesso del Louvre s’inaugurerà a settembre. Molti cantieri internazionali, pochi italiani. Nella sua città, Milano, il progetto di risistemazione della Pinacoteca di Brera è ancora al palo, dopo il concorso da lei vinto tre anni fa. Perché in Italia si muove poco o nulla?

Non è esatto dire che in Italia si fa poco o nulla. In realtà si fa, eccome. Ma, purtroppo, spesso si fa male e si spreca. Si sprecano soldi e occasioni irripetibili, si compromettono il patrimonio ambientale e quello storico, si tradiscono le aspettative e il diritto dei cittadini a vivere in un contesto di qualità sia esso abitativo, di lavoro o di vacanza. Ciò si deve in parte al precario livello culturale e imprenditoriale di certa committenza privata ed, eventualmente, al cinismo compiacente dei suoi professionisti. Per quanto riguarda invece le opere di pubblico interesse, anche in Italia (finalmente!) la «Merloni», d’ispirazione europea a partire dalla legge si impone agli enti banditori l’utilizzo di concorsi e appalti di progettazione e costruzione (europei o internazionali) regolati da norme e procedure molto severe e vincolanti. Ma anche se questo ha garantito un controllo nella selezione di progetti e progettisti (ponendo fine alle scandalose pratiche d’incarichi e assegnazioni clientelari), non ha impedito lo spreco insensato di risorse pubbliche e di lavoro progettuale (trascurando la frustrazione di architetti e cittadini) causato da tanti concorsi lanciati senza la certezza dei fondi necessari (o su incerte premesse urbanistico-funzionali), talvolta solo per la vanità o il tornaconto mediatico di amministratori e politici. E non ha impedito, di conseguenza, lo stallo snervante o il fallimento dei relativi progetti che non vedranno mai la luce. Va però riconosciuto che, nonostante tanta insensata mortalità progettuale, la ricorrente pratica dei concorsi ha già regalato all’Italia e alle nostre città un crescente numero di edifici e infrastrutture di cui sarebbe ingeneroso non essere fieri…

Le grandi firme dell’architettura possono contribuire a sviluppare una sensibilità diffusa per la progettazione?

Certamente sì. Ma anche le «grandi firme» fanno quello che possono: italiane o straniere che siano, partecipano con le stesse regole del gioco. Potrebbero, è vero, essere favorite nei concorsi a nomi scoperti, comunque riconosciute per l’evidenza del loro «segno» in quelli anonimi. Per contro, proprio le «grandi firme», con la loro crescente notorietà mediatica, contribuiscono a diffondere e alimentare l’interesse per l’architettura e i suoi autori. Coinvolgono la sensibilità di un pubblico sempre più ampio per il significato estetico, la responsabilità civica e il valore simbolico dell’architettura; interesse che solo pochi decenni fa era (soprattutto in Italia) totalmente assente dalla grande informazione. La maggiore consapevolezza pubblica dovrebbe anche scoraggiare amministrazioni e giurie dall’avallare incoscientemente proposte spettacolari che non si faranno mai perché del tutto fuori dai budget previsti nei bandi di concorso, ottenendo come risultato solo quello di svilire l’architettura a una vana fiction e di ridurre i concorsi a effimeri e costosi riti mediatici.

Pare che per i progetti a destinazione sociale non ci siano mai né visione strategica, né fondi. I soldi per i monumenti alla burocrazia politica invece non mancano mai…

È una domanda che adombra anche una precisa denuncia. La mia esperienza diretta d’incarichi pubblici (ovviamente acquisiti sempre per concorso) a Melbourne, a Essen e a Parigi, è stata assolutamente positiva. Non del tutto in Italia, dove il mio progetto per la grande biblioteca pubblica di Torino, risultato vincitore in un concorso internazionale del 2001, nonostante sia stato esemplarmente bandito e condotto dall’amministrazione comunale, è tuttora sospeso per una norma introdotta da una recente Finanziaria che ha ridotto i margini d’indebitamento ai Comuni. Non dispero, però, che anche in questo caso si arrivi presto a trovare una soluzione.

A Bologna ha avuto meno difficoltà…

Palazzo Pepoli è l’eccezione che conferma la regola: abbiamo vinto un concorso, bandito e finanziato dalla Fondazione Carisbo, e dopo anni di lavoro si è restituita alla città una cospicua parte della sua storia: una storia che deve essere accessibile a un pubblico vasto e indifferenziato. Il racconto del museo così come lo si legge oggi è stato il frutto di un profondo lavoro di ricerca interdisciplinare tra progetto, restauro, allestimento e progetto museografico che integra comunicazione multimediale e ambienti complessi e interattivi.

Il caso di Brera è forse unico al mondo. Pochi musei, possedendo tanti e tali capolavori, sono così trascurati. In 35 anni si è riusciti a non fare niente. Possibile?

Anche in questo caso ho vinto un concorso. Oggi purtroppo, dopo tre anni, siamo ancora al punto di partenza. Noi siamo pronti ad avviare il progetto esecutivo, il problema è che non c’erano e non ci sono fondi. Oltre a ciò, va aggiunto il fatto che per completare integralmente l’operazione «Grande Brera» servono anche finanziamenti per creare il nuovo campus dell’Accademia in un complesso di strutture già individuato, portando il costo di tutta l’operazione ad almeno 110 milioni. In alternativa, il ministero, con una cifra ben più sostenibile, potrebbe partire limitandosi a completare il restauro di Palazzo Citterio, di proprietà della Pinacoteca. Ciò consentirebbe per intanto alla stessa Pinacoteca di espandersi e riorganizzarsi, collocando in modo adeguato le sue prestigiose collezioni d’arte del Novecento e allestendo finalmente spazi appropriati per le mostre temporanee.

Per il nuovo Dipartimento delle Arti islamiche al Louvre vi è stato chiesto anche di sviluppare un accurato piano di utilizzo e manutenzione della copertura, un velo artistico e tecnologico. Capita spesso che il progettista sorvoli sulla «durata» della propria opera e che poi a farne le spese siano i committenti?

Fortunatamente le mie architetture, come per esempio l’edificio del Portello di Milano (parte del quale sto riconvertendo nel più grande centro congressi d’Europa) o il Centro congressi di Cernobbio, realizzato più di vent’anni anni fa, sembrano invecchiare bene: acquistano la patina del tempo senza imporre precoci problemi di manutenzione straordinaria, grazie anche alla scelta dei materiali e dei criteri con i quali sono stati assemblati. Per il Louvre c’è stato un grande lavoro di ricerca e di ottimizzazione del risultato. Un lavoro che ha comportato moltissime sperimentazioni sui materiali, ripetute messe a punto e valutazioni alternative, oltre che l’elaborazione di tecnologie originali che hanno richiesto una stretta collaborazione tra noi e il committente. In Francia l’impiego di materiali e tecniche costruttive nuove destinate a edifici pubblici richiede una specifica e laboriosa certificazione sperimentale che assicuri il raggiungimento di severi standard qualitativi.

Oggi è più che mai necessario rivendicare la centralità dell’architetto. La formazione universitaria in Italia è in grado di preparare i giovani a sostenere la sfida?

Credo che i giovani debbano vivere i loro cinque o più anni d’Università studiando, viaggiando, riflettendo, coltivando le proprie passioni e vocazioni. La formazione universitaria è tuttavia un punto di partenza necessario, ma non sufficiente: assicura a migliaia di giovani conoscenze generali che consentono d’intraprendere le diverse attività che ruotano attorno al mondo dell’architettura. Chi vuole davvero diventare un architetto dev’essere onesto con se stesso e fare i conti con il proprio talento. Fanno riflettere di più, forse, alcuni numeri: oggi gli architetti italiani sono il 30% di quelli europei; il 10% di quelli di tutto il mondo. E il rapporto tra Italia e Francia è di 7 architetti a 1. Noi, a metà degli anni cinquanta eravamo in 100 e si faceva l’appello nominale… Conforta comunque sapere che nel nostro Paese, in questo settore, la scuola ha fatto enormi progressi verso una sempre più interdisciplinare e responsabile preparazione professionale.

Autore

  • Davide Borsa

    Laureato in Architettura al Politecnico di Milano con una tesi su Cesare Brandi, pubblicata con il titolo Le radici della critica di Cesare Brandi (2000), è dottore di ricerca in Conservazione dell'architettura. È corrispondente del “Giornale dell'Architettura” e ha scritto per “Arte Architettura Ambiente”, “Arcphoto”, “Ananke”, “Il Giornale dell'Arte”. Suoi contributi sono in atti per il seminario internazionale “Theory and Practice in Conservation- A tribute to Cesare Brandi” (Lisbona 2006), per la giornata di studi “Brandi e l’architettura” (Siracusa 2006), per il volume “Razionalismo lariano” con il saggio “Eisenman/Terragni: dalla analogia del linguaggio alla metafora del testo” (2010), per il volume “Guerra monumenti ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale” (2011). Ha curato il volume “Memoria e identità del luogo. II progetto della memoria” (2012). Ha fatto parte dello staff curatoriale del Padiglione Architettura Expo 2015 per il ciclo di convegni Milano capitale del moderno. Presso il Politecnico di Milano collabora alla didattica nei corsi di Storia dell'architettura contemporanea, Teoria del restauro, Composizione architettonica e urbana e ai laboratori di Restauro e di Progettazione architettonica.

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Last modified: 20 Luglio 2015