Incontrare Andrea Branzi, maestro rilassato e beffardo, non è facile. Mi accoglie nel suo studio, piena di cose e libri dove scorgo alcune sue «Nature morte» esposte in una mostra omonima aperta durante la kermesse milanese. Iniziamo a parlare del volume Scritti presocratici. Andrea Branzi: visioni del progetto di design 1972/2009 (a cura di Francesca La Rocca, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 208, euro 25). Partiamo da un articolo che ha segnato la mia formazione come allievo maldonadiano ortodosso. Gli racconto che Pomeriggi alla media industria aveva instillato in me il primo dubbio sulla modernità e la sua relazione con il progetto: lepifania dellidea bauhausiana della centralità dellarchitettura per la produzione di progetto e della sua continuazione nella Scuola di Ulm.
Ha fatto vedere il lato nascosto del mito della modernità.
No. È che il design è riuscito a produrre un insieme continuo di cambiamenti che hanno portato a compimento la visione del design radicale, del progetto come luogo dellavanguardia permanente e diffusa. Il design è lunica forma di attivazione del cambiamento che può lavorare dal micro al macro per una nuova Carta di Atene. In una modernità debole in cui la città non è più un fenomeno architettonico, il design rappresenta lalternativa.
Per riprogettare i modi di vita in unottica di continuo cambiamento, mutazione. Un eterno presente invece che un lontano futuro. Una metamorfosi perenne, sfumata delle cose, delle attività, dei luoghi.
Certo è questo il senso dellessere presocratico. Ma anche il design deve elaborare il lutto per la scomparsa della modernità
In che senso?
Nel senso che deve finire dimmaginare solo una storia a lieto fine, per immergersi nel caos e nella problematicità del vivere contemporaneo. E confrontarsi con la storia, la morte, la religione, il dolore, la politica, lamore: insomma con tutto ciò che ci rende costitutivamente umani.