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Written by: Forum

Ground Zero/dall’Europa: In the Shadow of No Architecture

La distruzione delle due torri del Wtc, l’11 settembre 2001, ha raggelato il mondo intero. Ma lo choc senza precedenti che ha subito la città di New York è stato multiplo: quello concreto e omicida degli aerei schiantatisi contro gli edifici di Minoru Yamasaki, seguito dal crollo cataclismatico degli stessi, e quello provocato dalla tragedia sul morale degli abitanti della città. Questo colpo al cuore del narcisismo di New York, luogo di eccellenze economiche, architettoniche e culturali dal XIX secolo, ha indotto la città a una sorta d’introspezione negativa, come se la sineddoche dell’America e del capitalismo mondiale fosse stata per certi versi «punita» proprio per la visibilità conferitagli dai suoi grattacieli, essi stessi sineddoche dell’insieme del suo dispositivo urbano.
L’attentato alle torri della downtown di Manhattan, che con il Loop di Chicago è il principale luogo d’origine di questo tipo di modernità, ha messo in luce le loro caratteristiche costruttive ed estetiche, specialmente in occasione della meticolosa autopsia delle due torri «morte», per riprendere la bella espressione con la quale l’albo In the Shadow of No Towers di Art Spiegelman è stato tradotto in francese (versione italiana: L’Ombra delle torri, Einaudi, Torino 2004). L’attacco ha conferito a posteriori al sito un’aura particolare che non gli apparteneva prima della distruzione, soprattutto a causa della mediocrità degli spazi pubblici a livello della strada.
Ci si sarebbe aspettato che la ricostruzione del quartiere fosse politicamente e architettonicamente all’altezza del luogo. Sfortunatamente, lo è solo in parte. Se New York ha conosciuto un sorprendente sviluppo della scena architettonica dall’inizio del primo mandato del sindaco Michael Bloomberg (2002) con l’intervento innovativo di architetti provenienti da ogni parte del mondo, la trasformazione profonda delle pratiche di regolamentazione urbanistica e l’avvio della pianificazione di vasti terreni portuali o industriali, Ground Zero non è sicuramente la scena più sperimentale.
Il gioco dei vari attori che hanno dovuto negoziare la pianificazione dei terreni devastati (Port Authority, Stato di New York e del New Jersey, Lower Manhattan Development Corporation, amministrazione comunale e il locatario Larry Silverstein), ha prodotto in definitiva risultati piuttosto sterili e progetti progressivamente mutilati.
Lo slancio lirico della Freedom Tower, così come l’aveva immaginata Daniel Libeskind, a far da eco al grattacielo di 1.600 m di Frank Lloyd Wright, è stato stroncato dalla pesante base di cemento del progetto realizzato da David Childs di Som.
E se le ali dell’hub ferroviario di Santiago Calatrava non sono state toccate, la sua complessità è stata tuttavia ridotta. Il centro delle arti dello spettacolo di Frank Gehry invece dovrà attendere la sua realizzazione per essere lanciato. Quanto ai tre grattacieli «secondari» di Norman Foster, Fumihiko Maki e Richard Rogers, damigelle d’onore che accompagnano la «One World Trade Center», il progetto è diventato decisamente più modesto. Il programma in corso di realizzazione sancisce dunque la vittoria delle forze del realismo capitalista su quelle dell’immaginazione, ed è ben lontano delle speranze che la catarsi dell’11 settembre aveva alimentato.

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Last modified: 10 Luglio 2015