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Written by: Interviste

Dave Bing: voglio una Detroit giovane e partecipata

Essere sindaco di Detroit di questi tempi non è facile nemmeno per un’ex star dell’Nba. Dave Bing, a Torino a metà novembre per una visita ufficiale, è stato uno dei più popolari giocatori americani: ha militato a lungo nei Detroit Pistons tra gli anni sessanta e settanta, prima di reinventarsi, nella Detroit degli anni ottanta, imprenditore di successo del settore metalmeccanico. La sua popolarità è una preziosa risorsa per una città su cui la recessione economica del 2009 ha avuto un impatto difficile.
La crisi urbana di Detroit viene da lontano: comincia negli anni sessanta, quando le tensioni razziali, l’esodo della popolazione bianca e middle class verso i sobborghi e le difficoltà della produzione automobilistica portano a un graduale impoverimento del territorio all’interno dei confini comunali. La città, che aveva toccato 1.850.000 abitanti intorno al 1950, ne conta oggi meno della metà; sono rimaste soprattutto le fasce più deboli della popolazione, quelle meno capaci di assicurare alla municipalità una base fiscale. Detroit è così un caso paradossale, particolarmente estremo, di alcuni processi caratteristici del declino urbano delle città nordamericane. Chi ha visto film come Gran Torino di Clint Eastwood o il più recente Requiem for Detroit? di Julien Temple può avere familiarità con alcuni aspetti spaziali di questo cambiamento: un terzo dei lotti della città è abbandonato e vuoto, grandi edifici del Novecento, come la Michigan Central Station, si stagliano come rovine nel paesaggio e c’è chi è arrivato a immaginare che ampie parti del territorio possano essere definitivamente restituite all’agricoltura.
Dave Bing non intende solo segnare la discontinuità rispetto alla corruzione e inefficienza delle precedenti amministrazioni. Ha un ambizioso piano di rilanco della città, The Detroit Works Project, che sotto la guida dell’urbanista-star Toni Griffin, e con il cospicuo sostegno della Kresge Foundation, intende guidare un inedito downsizing della capitale dell’auto americana. Il piano, a metà tra strategia urbana e strumento urbanistico, è partito dalla mobilitazione della comunità urbana attraverso un processo di ascolto della città in cinque grandi forum cittadini accompagnati da planning awareness events, per poi affrontare la fase delle «scelte difficili» (fine 2010-inizio 2011) con quaranta forum di comunità e la successiva definizione delle linee strategiche attraverso un evento cittadino e 6 ulteriori incontri, e, infine, concludere con le public reviews previste per settembre-dicembre 2011 contestualmente all’adozione del piano. Gli obiettivi sono intersettoriali, e vanno dalla concentrazione della popolazione e delle attività lungo assi principali di sviluppo infrastrutturale e rigenerazione urbana, al set aside urbanistico delle parti ormai inabitate del territorio cittadino, fino alla ridefinizione fiscale delle zone di imposizione e allo sviluppo di comunità attraverso programmi di formazione e cultura. Un esperimento inedito negli Usa, che potrebbe incontrare il vento favorevole della tendenza alla riurbanizzazione e della nuova attenzione all’ecologia che attraversa gli States, ma che dovrà dimostrare di sapere convincere gli investitori, e, prima ancora, i cittadini di Detroit.

Per noi europei è assodato che le città abbiano una pianificazione, mentre negli Stati Uniti non è così. Può dirci qualcosa sulla decisione di una città di pianificare il suo territorio per dare un nuovo impulso all’economia, mentre la gran parte degli americani pensa che i piani la ostacolino?
I piani sono stati a lungo solo piani di facciata, che non coinvolgevano in alcun modo le persone. Noi invece abbiamo fatto leva su questo, perché quanti più soggetti coinvolgi, tante più idee ottieni, tanta più gente si interessa e sostiene il cambiamento, perché sente di farne parte. Dopo appena cinque incontri, sono in tanti a volersi impegnare. Ora creeremo trenta, quaranta sottogruppi in cui lo scambio d’idee, domande e risposte possa essere più intimo ed efficace.

Detroit perde popolazione e risorse, ma è collocata al centro di un’area metropolitana in crescita: è nell’anello dei sobborghi che si concentra buona parte della ricchezza e delle attività economiche del Michigan sud-occidentale. È possibile costruire forme di maggiore collaborazione, e non di competizione, tra le varie parti dell’area metropolitana?
Quella che mi trovo a guidare è la prima amministrazione che ha un buon rapporto con i suburbs. Con la leadership politica locale, che conosco personalmente da tempo, c’è un rispetto reciproco. In alcune aree ci sarà competizione, ma dubito che i sobborghi possano continuare a ingrandirsi, perché gli anziani sono nati e cresciuti a Detroit, hanno studiato qui e si sono trasferiti in periferia per varie ragioni. E molti, ora che sono rimasti soli, vogliono vedere la loro città tornare alla vecchia grandezza. I loro figli e nipoti non hanno mai vissuto in un ambiente urbano: ma ci sono molti giovani tra i 21 e i 35 anni che vorrebbero vivere in città e in tanti cominciano a tornare verso il centro. Dobbiamo dare loro un motivo per non venire solo in visita ma per vivere qui, per rimanere e godere della qualità urbana che i sobborghi non possono offrire.

Come pensa di attrarre nuovi abitanti?
Cercheremo di sviluppare la zona compresa tra downtown e i sobborghi, dove ci sono la maggior parte delle opportunità di crescita. La nostra downtown è un centro che non offre molte opportunità per vivere, è un quartiere degli affari che, quando la gente torna a casa, si svuota. Dobbiamo cominciare a usare palazzi vuoti o semivuoti e adattarli per abitarci. Penso che molti giovani vorrebbero viverci e noi vogliamo portarli qui, anche diversificando l’offerta di housing. Abbiamo in particolare una risorsa sottovalutata, il lungofiume. La gente ama l’acqua. Come città industriale, cent’anni fa era lì che si concentravano le attività. Ora che l’abbiamo ripulito, penso che dobbiamo sfruttarlo, che sia il bene più prezioso. Vogliamo far tornare le persone sul fiume, far loro vivere il fiume.

All’inizio di quest’anno, la città aveva un deficit di 325 milioni di dollari. A quali risorse finanziarie pensate di attingere per finanziare i servizi di cui la città ha bisogno?
Abbiamo imprese e fondazioni pubbliche e private che sono disposte a collaborare, concentrando  gli investimenti nelle aree in cui possono avere maggiore impatto. Con loro stiamo cominciando a ragionare per capire come ottenere cinque sommando uno più uno… Siamo certi che, una volta predisposto un progetto strategico di sviluppo, gli investitori capaci di puntare sulla città non mancheranno. Ci sono già fondi federali impegnati su alcuni progetti, come quello per la linea di metropolitana leggera su Woodward Avenue, ma per noi è vitale, da un punto di vista strategico, sviluppare il capitale umano e il know how che ci permetta di accedere a nuovi finanziamenti: sarà importante farlo soprattutto nei prossimi due anni, prima delle elezioni presidenziali del 2012, perché Obama e il suo governo si sono mostrati vicini a Detroit.

La sua amministrazione si appresta a varare un programma di demolizione di migliaia di case abbandonate. Crede che la nostra generazione possa vedere la fine dell’antico sogno americano della casa unifamiliare e tornare al «più urbano, più denso»?
Si, ne sono convinto. Non credo che vedremo mai Detroit tornare a usare tutti gli immobili vuoti di cui disponiamo. Dovremo fare cose diverse, far tornare la gente dove c’è più densità. Detroit non potrà mai tornare ad avere 2 milioni di abitanti: saremo al massimo 1 milione, ma la città può funzionare in modo diverso, immaginando nuove relazioni tra i propri elementi. Per fare questo occorre in primo luogo fermare il deflusso delle persone, stabilizzare la situazione, fornire i servizi necessari per riportare popolazione in città. Io penso che ci riusciremo in meno tempo del previsto.

La recente crisi ha dato il via a una nuova domanda di città più verdi ed ecologiche. Quali misure state adottando per rendere più verde Detroit, che è il simbolo della città industriale?
A Detroit ci sono meno industrie di quanto si pensi e non c’è moltissimo lavoro da fare su quel fronte. Piuttosto, nel momento in cui cominciamo a demolire alcune case, dobbiamo capire come creare spazio verde. Vogliamo sviluppare nuove forme di economia basate sull’agricoltura? Ancora non lo sappiamo, ma già abbiamo molti orti di quartiere, di un acro o un acro e mezzo, gestiti da comunità dove tutti partecipano. È un’esperienza che sta funzionando molto bene. Non so ancora dire se sarà possibile ampliarla. A Detroit abbiamo molti terreni liberi e a basso prezzo e la terra è una risorsa preziosa che può essere sfruttata in molti modi, ma prima di prendere questa direzione vogliamo essere certi che si tratti di una soluzione davvero capace di portare nuovi valori e opportunità di lavoro alla nostra economia.

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Last modified: 13 Luglio 2015