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Written by: Forum

Pianificazione paesaggistica: chi ci crede ancora?

Con puntigliosa ostinazione, il Primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica redatto da Italia Nostra descrive il quadro della situazione regione per regione. Al gran numero di convegni e dibattiti organizzati in questi anni attorno al tema del paesaggio, non ultimi quelli in occasione del decennale della firma della Convenzione europea del paesaggio (Firenze 2000), si oppone, autorevole, una voce dissonante che dimostra come alle infinite dichiarazioni di principio non corrispondano atti concreti e azioni coerenti.
Purtroppo la denuncia del mancato rispetto delle leggi e dell’aggiramento nell’applicazione delle norme corre il rischio nel nostro paese di diventare una forma rituale tanto giusta quanto di scarsa incidenza, a volte distogliendo l’attenzione da discussioni di merito.
L’Italia ha sottoscritto la Convenzione europea nel 2006, e anche ciò è stato all’origine di una parte delle revisioni cui è andato incontro il Codice Urbani per giungere al Codice dei beni culturali e del paesaggio.
È di un qualche rilievo evocare questi riferimenti, perché la Convenzione europea presenta aspetti d’innovazione tali da non consentirne la trascrizione nell’ambito delle specifiche tradizioni giuridiche dei diversi paesi europei in forma meccanica e scontata, tant’è vero che nel 2008 si arriva all’adozione di Linee guida per l’attuazione della convenzione. È in questo testo che compare l’invito alla costituzione di osservatori, ripresa anche nel codice italiano nella forma della realizzazione di un osservatorio nazionale e di osservatori regionali.
È tutto giusto, così come è condivisibile il rapporto di Italia Nostra; ma così facendo s’identifica un percorso dal generale al particolare centrato correttamente sulle responsabilità istituzionali degli organi legislativi che tuttavia, avviando una fase di attesa rispetto a forme più o meno consuetudinarie di piano e vincoli, corre il rischio di tradire la fertilità originaria della Convenzione europea.
Un osservatorio, oltre ad avere caratteristiche di terzietà e indipendenza, dovrebbe essere il luogo di convergenza dei saperi e di verifica dei poteri. Infatti le chiavi di accesso alla nozione di paesaggio sono molteplici soprattutto se non si tratta di cose, come fossero nature morte, ma di aspetti relazionali; e il paesaggio è luogo di confronto fra scienze dure e scienze umane, fra saperi esperti e saperi comuni. Se poi si vogliono tradurre gli aspetti percettivi in forme di conoscenza profonda, quindi anche causale, delle relazioni fra cose, è evidente che sono necessari molti saperi, nonché una rimessa in discussione delle capacità descrittive delle strutture di dati e della loro possibilità di rappresentazione, affinché il necessario monitoraggio assuma la forma di un’azione costante e coerente con precise finalità in un sistema di governance adeguato. Rispetto ai poteri, organizzati in ambiti territoriali o per competenze funzionali, è evidente che il paesaggio non rispetta i confini amministrativi ed è ordito per sistemi interrelati che travalicano le specializzazioni funzionali.
Di fronte a questa problematicità, l’invocazione di norme prescrittive, comprensibile come momento iniziale e transeunte, per affrontare una fase fondativa della discussione e degli strumenti, non deve far dimenticare che proprio esse, che escludono il confronto con innovazione e sperimentazione, sono state spesso all’origine, nella loro fatale parzialità e progressiva stratificazione, di molti fallimenti proprio di quelle strategie di pianificazione che vengono invocate. Spesso hanno prodotto ipertrofie procedurali incapaci di accompagnare i processi di riqualificazione territoriale necessari, contribuendo alla formazione di situazioni paradossali come la legge obiettivo o la proliferazione di commissari ad acta. Si corre, inoltre, il rischio di ridurre il tavolo Stato-Regioni a un infinito contenzioso piuttosto che spostare l’attenzione su obiettivi, criteri di valutazione e responsabilizzazione sociale competitiva anche delle singole comunità.
Il combinato disposto della mancata riforma della finanza e fiscalità locale in concomitanza di rilevanti tagli ai bilanci delle autonomie locali, espone ancora una volta il territorio e i suoi paesaggi al prevalere di valori di scambio nell’ambito di un mercato incapace d’introdurre innovazioni di prodotto al di là degli aspetti speculativi legati alle varie forme di rendita. Oltretutto, il progressivo consumo di territorio o l’alienazione del patrimonio pubblico è spesso uno dei modi per acquisire oneri di urbanizzazione e aumentare le entrate dell’Ici e far quadrare i bilanci comunali, costruendo così un formidabile paradosso attorno alla concezione del welfare.
Forse è la stessa «natura del bene comune a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi, a rendere possibile l’attuazione dei diritti fondamentali» in connessione alle nozioni di sussidiarietà, condivisione, eguaglianza. Si tratta di garantirne la permanenza nel tempo come forma specifica del benessere collettivo e del rapporto intergenerazionale. Ciò richiede un mutamento di mentalità e di cultura (anche nei paradigmi tecnici e giuridici) che identifichi nella straordinaria densità e diversificazione degli spazi e dei tempi che caratterizzano il nostro paese, risorsa assai rara, il più rilevante oggetto d’investimento nell’ambito della competizione internazionale.

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Last modified: 13 Luglio 2015