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Written by: Forum

Le Biennali degli anni duemila (aspettando Balzac)

Con la 12. Most ra Internazionale di Architettura, curata da Kazuyo Sejima, si chiude un decennio in cui la Biennale ha conquistato finalmente una sua regolare cadenza. È forse possibile tentare allora un primo, incompleto, bilancio.
Le sei Biennali dal 2000 al 2010 segnano un mutamento importante rispetto alle sei che le hanno precedute dal 1980 in poi.
Il racconto dell’architettura diviene via via più metaforico, mentre le intenzioni appaiono, almeno dai titoli di scena, sempre più sociali. La rappresentazione diviene essa stessa un evento (spesso è un’installazione) e ogni mostra si offre come esperienza, quasi sempre conclusa in sé. La tendenza è accentuata dal fiorire, attorno alla Biennale, di manifestazioni collaterali ogni anno più rilevanti.
Il distacco tra intenti e forme del racconto, dove le seconde prevalgono sui primi, tende a ridurre l’architettura a figure quasi sempre artistiche e a esaltare l’autorialità dell’opera. È singolare il fatto che spesso si ripetano, nelle sei Biennali degli anni duemila, i nomi dei protagonisti, ma ancor più che manchino, quasi totalmente, i tanti attori del processo decisionale, costruttivo e abitativo che fanno dell’architettura un’opera umana unica. Visitando le Corderie o i Giardini quella che emerge è un’architettura sempre più eterea e personalizzata, che nasconde, quando non esclude, l’avventura collettiva che, anche solo a livello progettuale, ne è il fascino discreto.
Questa tendenza è indubbiamente in sintonia con quanto questo decennio ha enfatizzato anche in altre Biennali, non solo di Architettura. Una tendenza che una sola volta, nel 2006, era stata negata, quando il curatore Ricky Burdett puntò invece a un salto di scala: quell’edizione si occupò infatti della metropoli, del rapporto tra urbanizzazione e società. Ma l’architettura è un complicato e tutt’altro che lineare gioco di scale. Sceglierne una è come suonare un notturno di Chopin solo in re.
Fatte salve alcune eccezioni (come il padiglione italiano nel 2008 o la sezione «Trasformazioni» sulla riconversione di edifici esistenti alle Corderie nel 2004), è stata privilegiata una concezione del tempo sempre basata sull’esclusiva dimensione del presente, mentre l’architettura è invece stratificazione di tempi. Prevale l’avvenimento; la Biennale appare sufficiente a se stessa, legittimata da un crescente consumo di visitatori, di servizi giornalistici e televisivi e poi di social network, ripercorrendo forse involontariamente la strada delle Esposizioni universali dopo il 1900. Basti pensare che quest’anno, già nella prima settimana, le presenze sono state 12.444, contro le 11.585 nello stesso periodo del 2008.
Uno spazio sempre crescente viene dato alle scuole di architettura. Sono tentativi importanti; alcuni davvero significativi (come nel 2006). Restano tuttavia all’interno di una rappresentazione dell’architettura come «progetto» e dell’esposizione come luogo di un’esperienza che purtroppo non va al di là del proprio confine e delle date della manifestazione.
L’immagine più forte che emerge da questi dieci anni di Biennali è il prevalere dell’allestimento sui contenuti, di una partecipazione che vive di se stessa e rinuncia anche solo alla scommessa d’incidere sull’idea che l’opinione pubblica si fa dell’architettura. Per fare un altro esempio, solo nei tre giorni di vernice, quest’anno si sono accreditati 9.578 addetti ai lavori, di cui 1.885 giornalisti (altro dato in crescita rispetto all’edizione precedente). Ma gli immaginari rimangono fortemente conservatori anche quando usano twitter o facebook, perché non si mette in discussione che cosa sia architettura né le stesse finalità delle mostre di costituire un evento. Probabilmente le Biennali raccontano con onestà una società immersa nella complessità della condizione abitativa metropolitana. Una complessità ormai diventata dominante che non si tenta o non si può governare. Di essa si accettano ormai il relativismo accidioso e un multiculturalismo che ha rinunciato a far emergere lo scarto tra culture. In realtà, e forse al di là delle intenzioni dei tanti curatori, le Biennali sono state i luoghi di una contaminazione non programmata: per questo motivo si possono considerare spazi urbani per eccellenza.
Forse da questa eredità sarà necessario ripartire, con un’attenzione a culture, soprattutto architettoniche, le quali sono risorse che si modificano proprio contaminandosi tra di loro. E cerca di superare l’omologazione è l’aspetto più irritante che emerge da alcuni padiglioni nazionali, nei quali quasi sempre le idee di comunità racchiuse entro presunte identità convivono con progetti firmati da architetti, malamente definiti archistar.
Una postilla. L’architettura è una comédie humaine di straordinaria complessità e fascino. Forse la sua rappresentazione richiede un mutamento profondo della messa in scena, degli attori, dei dialoghi, delle forme e persino della scena stessa. E un regista che abbia letto Honoré de Balzac.

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Last modified: 14 Luglio 2015