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Caterina PagliaraWritten by: Inchieste

Fairy Tales. Simboli e sofisticate architetture effimere

L’Esposizione universale di Shanghai è fortemente connotata da un nucleo di edifici tematici che si articola attorno all’Expo Boulevard, clou dell’area, un ibrido strutturale che ripropone, dopo mezzo secolo, superfici come quelle di Frei Otto per Mannheim, e più recenti soluzioni di copertura in acciaio e vetro; nessuna novità tecnologica nel sorprendente fuori scala. Da un lato, l’asse che distribuisce i flussi e si innerva nel sistema dei trasporti urbani; dall’altro, i macro oggetti architettonici che attraverso il salto dimensionale con gli altri padiglioni rendono riconoscibile il centro funzionale e simbolico. Il carattere di permanenza di questo settore fa emergere l’ambiguità di un grande evento di re-styling urbano: occasione ristrutturante per la città o sovrastruttura temporanea? La continuità con la tradizione è resa emblematica nel Padiglione Cinese, con la messa in scena (che qui rasenta la farsa) di sistemi costruttivi del passato; simbolo controtempo della Cina moderna, nel panorama di demolizioni massive dei tessuti urbani storici. La capacità di progredire della civiltà orientale si esprime, in maniera più o meno convincente, nelle forme avveniristiche del Performing Art Center, e nel paradigma dell’alta efficienza energetica attraverso l’Expo Center, nucleo logistico e avanzata «macchina ecologica». Il controllo ambientale si sostituisce a valori architettonici come la distribuzione o la qualità dello spazio e da requisito prestazionale diventa ragion d’essere dei padiglioni, nuova estetica della tecnica celebrando l’eccellenza in campo energetico. Il futuribile, atmosfera sempre evocata dalle Esposizioni universali, qui appare paradossalmente come revival di passate ambientazioni: il cluster di edifici tematici rimanda alla Symbol Zone progettata da Kenzo Tange, per la presenza di una megastruttura attraversata da persone e mobilità veicolare, secondo i principi metabolisti di partecipazione spontanea e movimento libero delle folle nell’architettura; ma, rispetto a Osaka ‘70, i concetti di flessibilità e armonia generale non si traducono in sistemi espandibili e riproducibili di trame geometriche tridimensionali: l’elemento che a Shanghai accomuna i padiglioni non è una logica costruttiva unificante ma l’attenzione rivolta a sofisticare l’involucro; né vi è traccia, nei formalismi liquidi dei padiglioni, delle geniali intuizioni biomorfologiche giapponesi, ispirate alle dinamiche dei sistemi organici, rivolte a un’architettura della metamorfosi, modulare perché cellulare.
La selezione di edifici espositivi che proponiamo è esemplificativa di questa tendenza diffusa alla stratificazione di tecniche sulla «pelle» del «contenitore», rispetto a rari casi in cui lo spazio pubblico è strutturante. Così il Padiglione Spagnolo presenta forme affascinanti ma arbitrarie, e affida alla sola concezione «tessile» delle componenti di facciata la volontà di controllo della luce e la costruzione di un rapporto interno-esterno, interpretando la sostenibilità come utilizzo di materiali tradizionali in volumi fluidi, ma trascurando aspetti importanti per un’architettura temporanea, quali la semplicità strutturale e costruttiva. La riduzione dell’edificio al suo involucro si ritrova nel Padiglione Polacco, oggetto scultoreo in cui la citazione dell’antica tecnica origami e il richiamo a sistemi artigianali è inteso ancora come segno di un rapporto armonico tra tradizione e innovazione. La Gran Bretagna si concentra sulla valenza espressiva di un elemento tecnologico: le barre di materiale acrilico sono forse il dettaglio più impressionante dell’esposizione. Immagine di un’arca della biodiversità, il padiglione è un oggetto di design a grande scala, che vuole essere organico imitando forme cellulari cigliate e sfruttando le qualità estetiche della luce per produrre scenari mutevoli nella spazialità interna. In questa rassegna dell’effimero i Padiglioni Olandese, Danese, Messicano assegnano invece priorità allo spazio pubblico e ai percorsi. La «happy street», rivisitazione irriverente di più austere promenades architecturales, allestisce uno scenario difficilmente riconducibile ad unicum: tra differenze e ripetizioni simula un pezzo di città e assegna alla strada il ruolo di primo attore e agli edifici quello di sfuggenti comparse. La percezione di un movimento centrifugo, di un’esplosione verso l’esterno, è bilanciata dalla capacità del percorso di far da legante: ne risulta la tensione tra spazio connettivo e volumi architettonici. È significativa la scelta dei linguaggi: la grafica da cartoon, le atmosfere da luna park, e forse il rimando a visioni anti-capitaliste dell’urbanistica olandese radicale, la New Babylon di Constant Nieuwenhuys distorta da una lente fish-eye. Grazie a questo edificio e a quello messicano, il tema «Better City, Better Life» entra con spirito ludico e ironia nella vicenda secolare delle Esposizioni universali, fairy tales, che spesso hanno la pretesa di prendersi un po’ troppo sul serio.

Autore

  • Caterina Pagliara

    Architetta e giornalista pubblicista, vive e lavora in Regno Unito dove svolge attività professionale e di consulenza nel campo dell’edilizia residenziale e dello sviluppo immobiliare. Dopo la laurea, consegue un dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica presso il Politecnico di Torino. Interessata agli elementi strategici e managariali della pratica di architettura, consegue un Master of Business Administration. Ha collaborato con istituti universitari per attività di docenza, tutoraggio di workshop internazionali di progettazione architettonica e come referente di ricerca storica su progetti urbani strategici, in Italia e all’estero. Coltiva la passione per la scrittura, i viaggi, la tutela ambientale e il giornalismo d'inchiesta. Collabora con «Il Giornale dell’Architettura» e «Abitare»

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Last modified: 17 Luglio 2015