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Written by: Design

Voilà la «Via» francese del design

PARIGI. Nell’ultimo rapporto sull’industria del mobile francese i dati fotografano una realtà non molto diversa da quella italiana: indotto ultraleggero di 20mila aziende, di cui solo mille con più di venti dipendenti. Dal punto di vista della ricerca e sviluppo, ma soprattutto in un’ottica di promozione del talento global/local, la forbice è in un acronimo: Via, per esteso Valorisation de l’innovation dans l’ameublement, una piattaforma atipica («Unica al mondo»: è la Francia, è grandeur…) che opera a metà tra un osservatorio sull’abitare contemporaneo e un’agenzia in grado di tessere relazioni forti tra scuole/industria/editori/distribuzione. Fondata nel 1979, grazie al sostegno del ministero dell’Industria e del comparto di settore, Via fa fede alla missione finanziando a progetto più che il «Made in France» il «French design» con una consapevolezza politica e culturale che relativizza il primo sapendo che il secondo non può che esserne un traino creativo, processuale, mediatico. L’esperimento, con tutte le complessità del caso, ha funzionato, come conferma la mostra in corso al Centre Pompidou «Via design 3.0», un bilancio (celebrativo) dei primi trent’anni di attività. Il percorso, con taglio cronologico, raccoglie in cinque paragrafi trenta prototipi realizzati grazie al programma su invito «Carte Blanche» che, dal 1980 a oggi, ha coinvolto altrettanti (ex) giovani talenti da esportazione: dall’esordiente Philippe Starck di «Don Danny» (poltrona classe 1982, ancora oggi in produzione da Driade con il nome «Costes») a Mathieu Lehanneur che, prima di presentare «Bel-Air» al MoMa, ha prototipato con Via la sua prima «creazione», il robot fonoassorbente «DB» (2006). La sequenza, completa di video-interviste e sezioni speciali, permette una duplice lettura. La prima, d’insieme, storicizza percorsi e visioni: dall’euforia progettuale degli anni ottanta alle correnti emergenti che non mirano più solo all’ingegnerizzazione estrema del prodotto, ma a un design di taglio esperienziale. La seconda restituisce singoli episodi di successo in termini di pertinenza concettuale, innovazione tecnologica, originalità estetica e fattibilità industriale. Tra i Garouste & Bonetti della sedia «Hiro-Hito» (1989), che con «la sua foglia d’oro segna la fine della scuola moderna», e la microarchitettura domestica «Lit Clos» di Ron Bouroullec (2002), emerge chiara la visione di Gérad Laizé, dal 1995 a capo dell’istituzione parigina; una visione squisitamente francese, dunque, come si accennava, decisamente politica. «Quando Tony Bair ha dichiarato che la creatività europea sarà inglese o non sarà affatto ha dato un impulso dinamico che ritroviamo ancora oggi nell’industria del design, della grafica, della moda britannica», ha ricordato. Non è un caso, dunque, che di recente Via abbia dato vita a una nuova consociata: Domovision, obiettivo tracciare, in chiave trasversale, le traiettorie (autarchiche) del design che verrà. Nell’ultimo «quaderno» Laizé parla di design che flirta con l’arte, di osmosi tra progetto/natura, di nuovo decorativismo, di nanotecnologie e infinitamente piccolo. In Francia, gli stili storici rivisitati rappresentano il 29% del mercato, contro il 71% del «contemporaneo». Ma la crisi non risparmia nessuno. «Nel mobile lavoriamo con l’aggiunta di oggetti, a differenza del settore tecnologia dominato da una filosofia usa e getta», è l’analisi di Laizé. In mostra, il 1981 per Via è la «Bibliothèque Beaubourg» di Gaetano Pesce (naturalizzato francese); il 2009 è invece l’estetica lineare ed econsensibile di Philippe Rham. Il percorso non fa una grinza. Bello sarebbe, che qualcuno in Italia ne «copio/incollasse» la formula.
A partire dal 2.0 della piattaforma web: www.via.fr
 
Via. Design 3.0. 1979-2009. 30 ans de création de mobilier, Centre Pompidou, Parigi, fino al 1° febbraio.

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Last modified: 17 Luglio 2015