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Written by: Inchieste

Il paradosso della «duplicazione»

Vorrei rispondere all’articolo Perché deve essere dov’era e com’era di Paolo Marconi pubblicato sullo scorso numero de «Il Giornale dell’Architettura». La posizione dell’autore è nota, e non avrebbe bisogno di particolari commenti, nel panorama del dibattito attuale sul restauro, per la sua simpatica paradossalità; e ciò almeno per due motivi di fondo. In primo luogo perché non propone di prendersi cura del corpo del «malato» (in questo caso il centro storico), come cerca di fare ogni buon medico condotto per risanarlo e prolungarne la vita, ma pretenderebbe di sostituirlo d’un colpo solo con un improbabile facsimile da Museo delle cere assunto come «icona» sovrastorica perenne al posto dell’attuale sofferta identità e autenticità dell’originale (non dell’originario!). In secondo luogo perché tale posizione sfiducia la cultura del progetto contemporaneo costringendola tutt’al più nel letto di Procuste della passiva re-invenzione mimetica dell’antico e nel reprint di ciò che non c’è più.
Sebbene si dica in dichiarata opposizione, non fa così che accreditare, sotto altra forma, i noti anatemi di Cesare Brandi contro il «colpevole» processo di evoluzione della città antica e in particolare contro l’architettura dei nostri giorni, negando spazio alla ricerca progettuale odierna e al suo diritto di esistere.
Insomma un classico, pervicace doppio potenziale autogol che il nuovo Codice dei beni culturali (2004) manda in soffitta, definendo il restauro un’operazione finalizzata non certo alla «duplicazione», ma alla conservazione dell’«integrità materiale e al recupero» del bene.
Quello che stupisce di più non sono tanto le parole in libertà dell’autore ma l’olimpico silenzio e il pericoloso credito dato a tale posizione anacronistica e bislacca da parte di un periodico benemerito come «Il Giornale dell’Architettura» che, di solito, è tanto attento (e in egual misura) sia all’approfondimento della conoscenza storica (e alla salvaguardia) del patrimonio esistente sia, ovviamente, all’esercizio di un progetto di qualità.
Sono convinto che i gravissimi e complessi problemi della ricostruzione debbano e possano essere risolti con il massimo impegno e trasparenza possibile di tutti, con l’apporto delle specifiche competenze e con l’obiettivo comune di portare nel futuro la massima parte del costruito, nel quale sono saldamente impresse le radici della storia materiale della città. Assegnando poi, con l’immissione dei nuovi valori d’uso, lo spazio necessario al progetto di una nuova architettura in dialogo con la persistente città ferita. Si tratta proprio di due termini essenziali («conservazione» dell’esistente e «progetto» del nuovo) che Marconi programmaticamente esclude.
Sono già tante le riflessioni fatte dalla cultura italiana del restauro contro l’infelice slogan del «dov’era e com’era» che ormai si condanna da solo. C’è da insistere, semmai, sulla sua particolare applicazione: perché, pur ammesso per assurdo (e non concesso) di volerlo assumere come principio, il remake è dichiarato una «libera interpretazione migliorativa» («visto che crollarono specie se furono ricostruiti con mezzi poveri») da realizzare «con il ricorso a materiali e a tecniche tradizionali», in tutti quei casi in cui le opere appaiano in origine «mal eseguite […] tanto da non resistere a ulteriori sismi se rifatte com’erano e dov’erano». Strano concetto davvero questo che consentirebbe, nel nome di una presunta delega filologica soggettiva, di «correggere e implementare» con buona pace del rispetto della stessa storia.
C’è poi un punto curioso nell’incipit dell’autore, che accusa la cultura italiana del restauro di una spiccata «mentalità anglofoba e americanofoba», la quale avrebbe decisamente influenzato la Carta del restauro di Venezia del 1964 (e che continuerebbe tuttora) in quanto allora «ligia alla appena pubblicata Teoria del restauro di Brandi». In verità, se tutte le Carte ufficiali del restauro senza eccezioni (da Camillo Boito a oggi) ripudiano la prospettiva ingenua e antistorica del ripristino, e s’impegnano nell’affinare i modi e le tecniche della conservazione dell’esistente, non è davvero certo per una forma, neppure inconscia, di antiamericanismo, il quale, semmai, è affiorato assai dopo. Quanto a Brandi (e a Renato Bonelli) e alla nota voce Restauro dell’Enciclopedia universale dell’arte (1963), fu proprio in decisa contrapposizione a essa che nacque la Carta di Venezia di Piero Gazzola e Roberto Pane, considerata dai primi un vero colpo di mano degli architetti contro i grandi storici dell’arte che si ritenevano i veri depositari del giudizio di valore.
L’invocata «duplicazione» del patrimonio monumentale è stata dunque sempre esclusa e combattuta nel lungo dibattito sulla disciplina. Il caso della ricostruzione americana della Stoà di Attalo ad Atene resta una delle più incredibili manomissioni macroscopiche di una zona archeologica d’eccezione e Brandi, qui ben citato da Marconi, aveva davvero ragioni da vendere nel denunciare «l’offesa di quella sfacciata e aggressiva presenza».
Quanto alle presunte norme per la ricostruzione post-terremoto, sono tali da far sorridere anche gli antichi tecnici delle nuove città di fondazione, dal Marchese di Pombal a Francesco La Vega, quando vi si annuncia il concetto (gerarchico) che in questo nuovo «paese dei balocchi» che l’autore sogna «si devono ridurre le altezze» tornando a non più di «due o tre piani fuori terra nel caso delle case borghesi e consentendo solo alle case patrizie un’altezza di poco superiore (!): massimo cinque o sei piani». Abbiamo mai visto in Italia palazzi patrizi e case tradizionali di sei piani? E se questa discriminazione fosse presa sul serio dove andrebbero a finire le case popolari e quelle della povera gente che da sempre formano storicamente parte integrante del costruito urbano? Neanche il buon Principe di Galles, pur nella sua nota elitaria avversione alla modernità, arriverebbe mai a tanto.
Credo insomma che interessi a tutti noi impegnarci seriamente nel rispetto e nella cura di un tessuto provato ma ancora vivo, e non abbiamo davvero bisogno di artificiose «icone permanenti», frutto di un secondo assurdo terremoto (stavolta di tipo «iconologico») che richiamerebbero davvero «il nuovo Duomo vecchio di Casazza» sul quale ironizzava qualche anno fa a Indietro tutta! il buon Nino Frassica.

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Last modified: 17 Luglio 2015