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Written by: Inchieste

Perché dev’essere com’era e dov’era

Gli italiani sono ancora involontariamente dipendenti – nella cultura storico-artistica e del restauro – dall’anglofobia e dall’avversione per la cultura degli Stati Uniti dominanti ai tempi del Regime, e di conseguenza criminalizzano tuttora nel campo del restauro ogni riproduzione à l’identique, ignorando l’influenza internazionale della scuola filologica e iconologica europea salvatasi in America dalle persecuzioni razziali, nonché della scuola archeologica americana di Atene, responsabile del destino dei restauri dell’Acropoli a iniziare dal ripristino della Stoà di Attalo nel 1953. Cesare Brandi aveva così condannato l’operazione: «Questa idea non poteva venire che da un altro mondo, non dalla Grecia e, per quanti strazi archeologici ci si siano fatti noi italiani, neanche dall’Italia. Il contrasto, fra quell’edificio che starebbe al suo posto solo vicino al Campidoglio di Washington […] è tale da far desiderare che si ricoprano di terra quegli avanzi incomparabili, per sottrarli all’offesa di un sfacciata e aggressiva presenza» (in Viaggio in Grecia, 1954).
Una ricostruzione esplicitamente rivendicata dagli americani fino al terzo meeting internazionale per il restauro dei monumenti dell’Acropoli (1989), che vide anche una vistosa contrapposizione tra Roberto Di Stefano, il quale dichiarava in francese che la ricostruzione dell’Acropoli «era possibile… ma non necessaria» e il sottoscritto, che invece lodava i lavori della Stoà e quelli allora e ancor oggi in corso sull’Acropoli.
La mentalità anglofoba e americanofoba influenzò anche la Carta del Restauro di Venezia del 1964, in quanto ligia all’appena pubblicata Teoria del restauro di Brandi, la quale svelava la mentalità mercantile sulle copie e riproduzioni (denominate tout court falsificazioni) degli storici dell’arte italiani, attribuzionisti e certificatori dell’autenticità al servizio del mercato antiquario piuttosto che dediti alla filologia e all’iconologia delle opere.
Oggi, in un mondo che assiste alla globalizzazione della cultura tecnologica e alla migrazione d’interi popoli, le architetture e i centri urbani vanno considerati icone permanenti, tangibili, utilizzate e utilizzabili, delle culture locali: la loro funzione didattica è massima e il loro restauro, inteso nel modo più completo del termine – ovvero la loro più efficace duplicazione in caso di necessità, eseguita beninteso nel modo più colto e raffinato – è divenuto un obbligo di civiltà.
Nelle città europee colpite dalla seconda Guerra mondiale quali Budapest, Dresda, Innsbruck, Salisburgo, Varsavia, Vienna, Vilnius, si è potuto e anzi si è dovuto dopo il 1949 ripristinare gli edifici più prestigiosi e più cari agli abitanti, con opere grandiose e ben documentate, ignorate tuttavia dai «conservazionisti» nostrani. Tali ripristini hanno avuto il significato simbolico di «riparazione all’aggressione sadica subita» (Mélanie Klein); in quanto tali, essi hanno un significato assai simile a quello dei ripristini nelle zone terremotate. Infatti i terremoti sono affini alla guerra nell’immaginario collettivo, e richiedono anch’essi un cerimoniale di rimozione che esprima la volontà di restituire all’architettura una realtà corporea senza la quale resterebbe un fantasma cartaceo consegnato alle fotografie o ai disegni. I ripristini dunque non meritano l’accusa di falsificazione, ma attenzione: le strutture materiali degli edifici crollati potrebbero essere state mal eseguite, tanto da non resistere a ulteriori sismi, se rifatte «com’erano, dov’erano».
Nel caso dell’Aquila occorrerà dunque esaminare bene la pristina consistenza materiale degli edifici prima di replicarli «com’erano, dov’erano», visto che essi crollarono specie se furono ricostruiti con mezzi poveri dopo il terremoto del 1703, e tali mezzi consistevano spesso – per le costruzioni borghesi – in pietre piccole o ciottoli tufacei di fiume, legati con fango vegetale anziché argilloso, piuttosto che con la calce mescolata alla pozzolana. Una legatura col fango che regge solo laddove sia presente pietra calcarea ma anche un fango di fiume argilloso come a Roma, solo così consentendo che si costruissero fino alla metà del Settecento edifici di grande rappresentatività come la facciata di San Giovani dei Fiorentini o la chiesa della Trinità degli spagnoli in via Condotti.
Non solo: occorrerà tornare ad altezze non superiori a due o tre piani fuori terra, nel caso delle case borghesi, consentendo solo alle case patrizie un’altezza di poco superiore (massimo cinque/sei piani), e si vedano i tipi di case e palazzi italiani tradizionali. E ciò per l’ovvio motivo che la maggiore altezza provoca maggiori oscillazioni e dunque maggiori danni alle murature. Occorrerà tornare a impiegare buona pietra cementata con calce e pozzolana, e buon legname per solai e tetti, oppure consolidare, rinforzandole, le chiese o i palazzi patrizi che non fossero ancora crollati, ricorrendo a pietra ben tagliata commessa con malta di calce e pozzolana e a strutture orizzontali in legno ben selezionato e congiunto.
Va detto infatti che la cupola della chiesa delle Anime sante a L’Aquila è crollata proprio a causa di alcune ricuciture effettuate nel 2006, le quali hanno iniettato cemento liquido nei muri e hanno «rinforzato» la cupola del Valadier con una cappa di acciaio e cemento la quale non solo non ha impedito il crollo, ma probabilmente lo ha causato. E dunque sarebbe bastato, nel corso dei recenti restauri, sostituire le tre cerchiature di legno che contenevano la cupola del 1805, le quali si sono slegate a causa della povertà con la quale furono realizzate, come si vede benissimo dalle foto post sisma. E anche a causa del fatto che i progettisti e direttori degli ultimi lavori le avevano bellamente ignorate, sicuri com’erano delle proprie abitudini tecniche, imperniare sull’uso esclusivo delle ricuciture e delle cappe in cemento armato. Anche in tal caso, dunque, dietro al terremoto dell’Aquila vi è da sospettare della competenza e dell’onestà delle imprese costruttrici ottocentesche che non legarono tra loro efficientemente le cerchiature progettate dal Valadier, nonché delle tecnologie di «ultima generazione», predilette dagli architetti sedicenti «moderni», e cioè privi di preparazione nel campo delle tecniche tradizionali.
Ecco dunque che cosa dovrebbero sapere gli addetti alla ricostruzione dell’Aquila: leggere e interpretare correttamente i linguaggi dell’architettura dei secoli passati. Sarebbe necessario dunque esercitarsi bene nella filologia: quella scienza umana «relativa alla ricostruzione e alla corretta interpretazione dei documenti di un ambiente culturale definito», i cui progressi, dal Settecento in poi, hanno fornito ad archeologi e architetti i metodi d’interpretazione e ricostruzione delle rovine antiche, come ad Atene. Senza di ciò, essi non sarebbero in grado di progettare il recupero della bellezza di una città come L’Aquila, in quanto non saprebbero leggere, interpretare ed eventualmente ricostruire per parti la sua architettura. Come non saprebbe leggere e tanto meno correggere e implementare (emendare) un testo lacero scritto in latino antico o medievale chi conoscesse solo la «scrittura creativa» dell’italiano odierno.

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Last modified: 18 Luglio 2015