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Scritto da: Forum Reviews

Teatri di guerra, attualissime realtà

Teatri di guerra, attualissime realtà
A partire da un libro recente, “War is (not) Over”, l’autrice propone una riflessione storica, dal 1945 ad oggi. La tabula rasa è un tema ineludibile dell’urbanità contemporanea

 

Cartagho delenda est è una celebre frase che, per alcuni, è ricordo di studi classici compiuti da adolescente, per altri, sinonimo della follia umana che presiede un atto di distruzione volontaria.

 

Warfare

Le parole di Catone risuonano sinistramente in questo 2025, già segnato da un intensificarsi della violenza bellica in Ucraina così come a Gaza, senza dimenticare la ricorrenza degli 80 anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale. In parallelo, alla periferia delle guerre più grandi e mediatiche, arde un focolaio di altri conflitti – Nagorno-Karabakh, Yemen, Sudan, Myanmar, soltanto per citarne alcuni – che lascia intravedere il sopraggiungere di foschi scenari.

Parlare di guerra implica una lettura al contempo generale e di settore: la condizione bellica, il potere militare, le prospettive espansionistiche di un paese sono, da sempre, indissolubilmente legate alla natura umana, e sono state narrate, descritte, raffigurate al punto da diventare uno tra i temi più indagati nelle arti, nella letteratura e nelle scienze umane.

La guerra classica, da manuale, è quella combattuta per secoli sui campi di battaglia o nei pressi dei nuclei urbani, ma mai all’interno di essi, se non come extrema ratio (assedio finale e sacco). Tale condizione è poi radicalmente mutata con il Secondo conflitto mondiale, trasformando la sfera urbana in una tipologia specifica del più ampio warfare.

 

Cicatrici che non se ne vanno

Dal 2022 ad oggi i meccanismi bellici sembrano, da una parte, riprendere le brutali sperimentazioni dell’ultimo (?) conflitto mondiale, mentre dall’altra hanno assunto specifiche proprie, soprattutto attraverso l’introduzione di strumenti di nuova generazione come i droni e l’intelligenza artificiale. Ciò che resta costante, ed è purtroppo verificabile dai notiziari, è la volontà di ridurre al nulla il nemico (non di vincerlo!), sopprimendo per sempre l’ordinamento spaziale e civile nel quale vive. Una visione catastrofica che lascia spazio a riflessioni urgenti per le moderne Cartagine.

A dispetto delle enormi implicazioni per il mondo dell’architettura, il problema dell’urban warfare è stato poco esplorato nel nostro ambito disciplinare e, con esso, l’ambiente che sperimenta in prima linea i processi che vanno dalla distruzione puntuale alla tabula rasa.

Il disfacimento del tessuto e della forma urbana reca con sé la necessità (vitale, simbolica e politica) di ricostruire: la cancellazione è infatti uno strumento che nega la città in quanto entità fisica e civica, e impone una riflessione ad ampio spettro e contingente nei riguardi anche dell’attuale crisi globale.

Da obsoleta e lontana, la guerra è tornata prepotentemente nella nostra quotidianità come un evento concreto e plausibile. Per di più, l’approccio bellico degli ultimi 30 anni, caratterizzato da operazioni mirate (smart bomb, bunker-buster, etc.) è stato abbandonato recuperando l’idea di un bombardamento indiscriminato: non sono più le infrastrutture critiche e gli edifici simbolici per lo Stato e la civis ad essere presi di mira (come nei celebri casi di Baghdad, Mostar e Sarajevo), bensì l’intera estensione urbana (Mariupol’, Irpin’, Černihiv, Kharkiv).

Le strategie usate dagli eserciti per annientare la controparte civile del nemico influiscono inevitabilmente sugli approcci perseguiti e sulle successive sensibilità che emergono nel periodo di pace. Quasi sempre le tracce del conflitto, anche a distanza di decenni, restano evidenti: si pensi ai fori dei proiettili nelle facciate delle Flakturm e di alcuni edifici museali a Berlino, alla rovina atomica del Genbaku Dome a Hiroshima, alle Sarajevo Roses e alle costruzioni monche di Beirut, che sono – pur nella loro diversità – cicatrici del trauma subito e memento per le generazioni future.

 

Distruzioni e ricostruzioni

La città come teatro di guerra determina molteplici osservazioni sulle caratteristiche materiali e immateriali dei luoghi e dello spazio civico, sull’annientamento delle comunità e sull’importanza della memoria storica, anche recente.

Il volume “War is (not) Over. Destruction and Reconstruction in the Urban Theaters of War, 1945-2025” indaga il tema della guerra attraverso le prospettive di architetti provenienti da contesti eterogenei – spesso da quelli stessi scenari di conflitto affrontati nel libro – e pone una attenzione particolare ai processi di distruzione e ricostruzione.

La volontà di cancellare una città si sviluppa nel tempo, procede con violenza e persistenza, non prevede stratificazione ma sottrazioni continue e costanti. Come ogni conflitto insegna, il fantasma della guerra non svanisce con la fine delle operazioni, ma stende la sua lunga ombra anche sugli anni, spesso decenni, successivi. Lo testimoniano una lunga serie di città i cui nomi sono divenuti sinonimo di ferite non rimarginate.

Berlino, Königsberg, Hiroshima, Beirut, Sarajevo, Irpin’, Gaza, ecc. – seppur dissimili per storia, morfologia e sviluppo – sono accomunate dalla dimensione spropositata della tabula rasa. In questi casi siamo dunque obbligati a vagliare tutta una serie di problematiche essenziali nei processi di ricostruzione: il diverso impatto delle tecnologie belliche sui tessuti urbani; le modalità attraverso cui il conflitto è stato adattato alla città; la relazione esistente tra la strategia di annientamento subita e la volontà di ricordare.

Immagine di copertina: Vovchansk, Ucraina, 2025

 

copertina del libro “War Is (not) Over”, 2025

Il volume “War is (not) Over. Destruction and Reconstruction in the Urban Theaters of War, 1945-2025” (a cura di Giusi Ciotoli, Campisano Editore, Roma 2025, 208 pagine, 30 euro) indaga le città che sono state (e alcune sono tuttora) teatri di guerra, veri e propri paesaggi di desolazione dovuti a operazioni volontarie di annientamento. La distruzione totale è analizzata a partire dalla Battaglia di Berlino (1945), passando per Hiroshima, Sarajevo, Kharkiv, Gaza, etc., mettendo in luce le problematiche architettoniche, sociali e finanche etiche che si manifestano dopo l’annientamento. La tabula rasa che si palesa in queste città – così come a Prishtina, Irpin’, Mariupol’ – ci pone davanti al rapporto disarmonico tra distruzione e ricostruzione. Se infatti possiamo parlare di molteplici forme di distruzione, i contributi di Giusi Ciotoli, Marco Falsetti, Fabien Bellat, Howayda Al-Harithy, Mariam Bazzi, Batoul Yassine, Marianna Charitonidou, Sundus Al-Bayati, Florina Jerliu, e le interviste con Ashley Bigham, Sasha Topolnytska e Mazen El Murr sono focus monografici che evidenziano l’impossibilità di enucleare in maniera chiara il processo di ricostruzione. Strutturato in quattro sezioni – The Days Before the End, The Days After, Policies and Processes of Urban Reconstruction, and Architects from the frontlineil libro fornisce un quadro complessivo dei teatri di guerra degli ultimi 80 anni, attraverso una lettura volutamente corale.

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Tag: , , , , Last modified: 16 Dicembre 2025