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Written by: Interviste

Lina Malfona: ibridazioni, botteghe, periferie

Lina Malfona: ibridazioni, botteghe, periferie
Progettista a Roma, docente a Pisa. Ampio dialogo con una figura emblematica della generazione di mezzo della professione italiana

 

Lina Malfona è ospite, il 24 settembre, insieme a Fulvio Irace, del ciclo di conferenze Costruire Abitare Pensare dell’edizione 2025 di Cersaie. In questa intervista condivide un punto di vista, sia interno che esterno, sull’attuale condizione della cultura architettonica.

 

Ci sono territori periferici, marginali, che oggi sono capaci di offrire occasioni per nuove forme di urbanizzazione e di comunità. Dove testare anche i canoni della sostenibilità e del risparmio energetico, sfuggendo alla retorica della densità e della finta efficienza. 

 

Lina Malfona, iniziamo da qua: dalla periferia romana e da una visione di architettura impegnata e praticante.

Da giovane professionista, diversi anni fa, ho avuto l’opportunità di progettare e di costruire, insieme a Fabio Simone Petrini e a Giuseppe Malfona, una serie di abitazioni unifamiliari a Formello, nella campagna romana. Che è soprattutto pendolarismo, isolamento, solitudine, non solo il buen retiro delle classi agiate. Costruire qui, con tecniche e maestranze locali costa molto meno che in città. È un’architettura a chilometro zero.

 

Che consuma suolo, però

Ma che è anche in grado di dare risposte a comunità molto varie, diversificate, integrate. Le nostre committenze erano formate in prevalenza da impiegati, piccoli imprenditori, qualche professionista. Cittadine e cittadini che paradossalmente la città ha escluso per i costi troppo elevati. E che qui hanno dato vita a una nuova convivialità. Soprattutto nei mesi della pandemia da Covid-19 abbiamo visto una fortissima cooperazione. Significa che l’architettura ha riscattato emarginazione e isolamento costruendo comunità aperte e internazionali. 

 

Comunità non fatte non soltanto di case

Questo progetto dura da quasi 20 anni. Oltre alle residenze prevedeva servizi e funzioni diverse, un arcipelago di usi possibili: scuole, asili nido, spazi sportivi. Da qualche tempo c’è anche un birrificio, molto frequentato. Abbiamo attivato un processo di urbanizzazione del territorio. L’ho scritto nel libro “Residentialism” ispirandomi in qualche modo a Rem Koolhaas e alla sua ricerca “Countryside”. 

 

Che edifici sono?

Tradizionali nelle tecniche, in cemento armato e con muri perimetrali in laterizio. Ma il più possibile avanzate dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici. L’obiettivo è di rendere le abitazioni autonome rispetto alle reti di connessione tecnologiche. Alcune sono state progettate anche per la loro espansione in più fasi successive. Penso che quello della post-occupancy sia un tema decisivo, oggi più che mai. Non solo in termini tecnici e di modificazione degli assetti spaziali. Importante è capire come e perché le case vengono affittate, vendute, trasformate, divise, ampliate. Diventa un fattore decisivo: una ricerca a cui devono contribuire gli architetti ovviamente (penso al lavoro di Luigi Snozzi a Monte Carasso) ma anche altre discipline. 

 

Eccoci, l’integrazione disciplinare. Tu progetti, insegni, ricerchi, comunichi. In un mondo professionale in cui sembrano però prevalere ancora le divisioni: i docenti fanno solo i docenti o prevalentemente quello, gli ordini professionali sembrano spesso più preoccupati di difendere il proprio campo d’azione che di sviluppare sinergie. 

Ho molto rispetto per i colleghi che preferiscono muoversi all’interno di steccati disciplinari ben definiti oppure su temi più teorici che progettuali. Ma la mia esperienza è diversa e mi ha portato a lavorare, ormai da quasi 7 anni, a Pisa, in una scuola di ingegneria. Il dialogo con le diverse discipline è la chiave di tutto. Sto lanciando una call sui rapporti tra scienza e architettura e prima di pubblicarla l’ho sottoposta ai colleghi di fisica, di storia dell’arte, di ingegneria. La ricerca ha sicuramente bisogno di momenti solitari ma altrettanto di un confronto vivo e non superficiale. 

 

Un confronto che aiuta nel trovare la giusta dimensione e il proprio ruolo.

Ho avuto la fortuna di iniziare a costruire prima dei 30 anni, mi sono sentita un’architetta impegnata sul campo privilegiando la dimensione della piccola bottega. Kenneth Frampton parlava di un’architettura agonistica della periferia che si oppone al sottile conformismo del centro. Direi che questo pensiero incarna perfettamente la mia filosofia. Proprio nella bottega, diceva Pierluigi Nicolin, l’architettura può diventare un fenomeno artistico. Penso tra le altre all’esperienza di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Anche nella pratica, così come nella ricerca, servono sinergie interdisciplinari ma anche momenti di autonomia. Sono quelli che permettono di prendersi una pausa, necessaria, da negoziazioni e compromessi. In questo mi ispiro molto a Louis Barragán.

 

Questione di equilibri, tra locale e globale. Una traiettoria che è anche geografica: gli studi a Roma con Franco Purini e poi, prima di Pisa, il Nord America, la Columbia University, il Canadian Center for Architecture, la Cornell University. Ai tempi dei maestri la cultura architettonica italiana guidava la discussione mondiale. Oggi come ti sembra sia il suo stato di salute? 

I nostri maestri – non penso solo a Purini ma anche a Vittorio Gregotti e a Paolo Portoghesi tra gli altri – erano fonti inesauribili di certezze e di coerenza linguistica. Le mie posizioni sono più dubitative, mitigate forse dalla lettura di Reyner Banham insieme a Manfredo Tafuri. Quello che vedo è una marginalizzazione, anche nell’università, della critica. Viene vista come una pratica soggettiva e non controllabile, a tutto vantaggio di analisi ritenute più scientifiche e delegate ad altre specializzazioni. Credo sia una deriva sbagliata: la critica si può fare anche attraverso il progetto. Ne sto scrivendo nel libro “Futuro o elissi della critica”, di prossima uscita.

 

Non è un caso in questo senso che la Biennale 2025 abbia un curatore progettista, Carlo Ratti. 

Che infatti è anche ingegnere oltre che architetto. Siamo nell’epoca del trionfo della scienza e della tecnica. E mi sembra di poter dire che oggi la figura dell’ingegnere abbia sostituito quella dell’architetto anche come coordinatore di processi. Se allarghiamo il discorso possiamo vedere che ormai da tempo figure come lo storico, l’antropologo, l‘etnologo e il sociologo hanno affiancato, e il più delle volte sostituito, la nostra come produttori di conoscenza. La Biennale di Carlo Ratti è l’espressione di questo: l’ingegnere oggi si presenta come uno specialista con un ampio spettro di competenze e nel corso del tempo si è dimostrato più idoneo a leggere la complessità dei fenomeni, definendone le reciproche relazioni. Da parte mia spero che l’architettura sappia ritornare al centro del dibattito pubblico, però al momento sono pessimista: mi sembra esista solo se coinvolta in progetti multidisciplinari. Da sola pare non interessare a nessuno.

 

Questo è anche l’anno della Triennale di Milano, particolarmente importante e dibattuta sul tema delle disuguaglianze. 

Al pari di Venezia, testimonia una mancanza di centralità dell’architettura. Si guarda al contesto, ampio, per derivarne nuovi paradigmi epistemologici. Una cosa positiva perché ci apre gli occhi. Però ho l’impressione di sentire in sottofondo uno scricchiolio del meccanismo che sottende queste esposizioni. Si avverte la presenza di un certo schematismo: prevalgono tematiche molto simili come salute, migrazioni, crisi climatica, disuguaglianze etniche, conflitti. È vero che queste sono le urgenze del nostro tempo però mi sembra siano modelli politicamente corretti, a tutti i costi. 

 

Restiamo a Milano. Questa è stata anche l’estate delle indagini giudiziarie e delle forti critiche ad un modo di fare città e di fare urbanistica, considerato per anni un modello.

Una vicenda molto complessa. Ne voglio parlare senza entrare ovviamente nelle vicende giudiziarie. Le istituzioni funzionano se donne e uomini riescono ad attivare pratiche virtuose. Nel caso di Milano i processi sono stati attivati sempre dal solito cerchio magico, e così facendo si perde fiducia nelle istituzioni. La città vanta straordinarie competenze ma il campo dell’architettura sembra essere stato usurpato da amministratori famelici e da narratori molto astuti. Ciò che mi preoccupa di più è che gli esperti di storytelling stanno instaurando patti di alleanza con i developer.

A Pisa invece coordini il laboratorio di ricerca Polit(t)ico.

Il nostro prossimo evento sarà un convegno sui confini tra scienza e architettura, tra invenzione e capolavoro, tra intelligenza artificiale e intelligenza umana. Parleremo anche delle intelligenze escluse ed emarginate. A Pisa c’è lo straordinario Polittico di Masaccio che ci ispira e che racchiude l’immagine stessa della frammentazione. I pezzi del Polittico non si sono mai ricomposti nel loro luogo di origine, sono ancora sparsi in diversi angoli del mondo. Ci piace vederli simbolicamente come i pezzi di un’intelligenza connettiva sempre più necessaria.

 

Immagine copertina: ritratto di Lina Malfona

Autore

  • Michele Roda

    Architetto e giornalista pubblicista. Nato nel 1978, vive e lavora tra Como e Milano (dove svolge attività didattica e di ricerca al Politecnico). Dal 2025 è direttore de ilgiornaledellarchitettura.com

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Last modified: 10 Settembre 2025