Ripensare, adattarsi ai cambiamenti e mantenere viva la creatività sono le basi del lavoro di Catarina e Rita Almada Negreiros
CAN RAN è uno studio di architettura fondato a Lisbona dalle architette Catarina e Rita Almada Negreiros. Promuove un approccio interdisciplinare che si muove a scale diverse tra architettura, arte e design, ristrutturazioni e arredi. Il 25 settembre sono ospiti del ciclo di conferenze Costruire Abitare Pensare dell’edizione 2025 di Cersaie. Le abbiamo intervistate per approfondire progetti e approccio, tra tradizione e suo superamento e qualche cenno al ruolo delle donne, oggi, nel mondo dell’architettura portoghese.
CAN RAN Arquitectura nasce da un percorso condiviso, familiare e professionale. In un contesto come quello attuale, in cui la specializzazione sembra prevalere, il vostro lavoro si distingue per una pratica trasversale che va dalla riabilitazione all’urban design, fino alla ceramica e al light design. Come riuscite a mantenere una coerenza metodologica? Pensate che possa essere un modello utile per l’architettura di oggi?
Non è stata una scelta pianificata a tavolino, ma una conseguenza naturale dei nostri interessi. Tornando in Portogallo dopo anni di esperienze all’estero, abbiamo riscoperto l’azulejo, un materiale profondamente legato all’identità portoghese e quasi invisibile in altri Paesi. Attraverso la collaborazione con la fabbrica Viúva Lamego abbiamo iniziato una lunga fase di sperimentazione: dagli azulejos cinetici, oggi presenti al Museo Nazionale dell’Azulejo, fino a grandi installazioni urbane. Parallelamente ci siamo misurate con progetti molto diversi per tipologia e scala: illuminazione pubblica, come al Castelo de Palmela; residenze private; arredi e design.
Non c’è una metodologia unica: ogni progetto nasce da un contesto, da un programma, da una specifica condizione. Ma c’è una costante: il tentativo di far dialogare dimensione architettonica e dimensione artistica. In questo senso, crediamo che una pratica trasversale, non rigidamente specialistica, sia non solo possibile, ma necessaria oggi per rispondere a sfide complesse e in continua trasformazione.
Il vostro percorso si è intrecciato con quello della generazione precedente. Qual è stato l’insegnamento più importante che avete ereditato? E cosa, invece, avete sentito il bisogno di superare?
Siamo cresciute in una casa dove l’architettura era una presenza quotidiana: nostro padre era architetto e noi, fin da bambine, frequentavamo i cantieri, vedevamo i suoi disegni e imparavamo ad osservare i processi. Potremmo dire che la nostra formazione è iniziata ben prima dell’università. Questo ci ha dato uno sguardo concreto, legato alla realtà del costruire, alla bellezza del disegno e della costruzione come atti inscindibili.
Allo stesso tempo, abbiamo sentito la necessità di costruire un percorso autonomo. Non abbiamo mai lavorato come collaboratrici in grandi studi di maestri, ma abbiamo cercato esperienze diverse all’estero: l’Erasmus a Venezia, gli anni a Londra e Boston, le esperienze in studi internazionali. Questo ci ha permesso di uscire dall’ombra di un cognome importante e di costruire un’identità professionale indipendente.
Siete un atelier interamente femminile. Cosa significa oggi essere architette in Portogallo?
Negli ultimi anni, soprattutto dopo il movimento Me Too, c’è stata più attenzione al ruolo femminile e noi stesse siamo state invitate in eventi e incarichi – come la curatela dell’Open House di Lisbona nel 2017 – anche perché donne architette. Ma non si tratta ancora di una vera parità: più visibilità che reale uguaglianza nelle opportunità di lavoro o nei compensi.
La nostra condizione personale è privilegiata: uno studio di proprietà, un cognome che ci ha aperto alcune porte. Non è lo stesso per tante colleghe. Guardando indietro, il caso di nostra nonna Sarah Affonso è emblematico: artista straordinaria, ma a lungo oscurata dal marito José Almada Negreiros e dai ruoli familiari che ha dovuto assumere. Oggi le cose sono cambiate, ma la strada è lunga: il tema della disparità resta ancora molto presente nella professione.
Il vostro cognome porta inevitabilmente con sé una forte eredità culturale e artistica. In che misura questo ha influenzato la vostra formazione e il vostro modo di intendere l’architettura?
Il cognome Almada Negreiros è stato un’eredità e al tempo stesso una responsabilità. Da un lato, ci ha dato radici profonde nella cultura portoghese, dall’altro, il rischio era di restare imprigionate in quell’identità. Abbiamo sentito presto la necessità di prendere le distanze: per questo siamo partite. Le esperienze all’estero sono state fondamentali. Studiando e lavorando fuori abbiamo potuto essere semplicemente “architette”, senza l’etichetta di “figlie o nipoti di”. È stata una ricostruzione personale e professionale.
Quella distanza ci ha permesso di guardare con occhi nuovi all’eredità familiare. Oggi la viviamo come una risorsa: la capacità di attraversare diverse forme artistiche, di non vedere confini tra pittura, design, architettura. Forse è proprio questo il filo che lega il passato al nostro presente.
Il recente progetto di recupero della casa dei vostri nonni, gli artisti modernisti Sarah Affonso e José Almada Negreiros, ha un forte valore affettivo. Come si trasforma la memoria familiare in materia di progetto?
È stata un’esperienza particolare: la casa era già stata modificata da nostro padre negli anni Ottanta. Intervenire lì ha significato lavorare “a più strati di memoria”: il vernacolare originario e il restauro di nostro padre. Abbiamo scelto un approccio discreto, quasi invisibile, mantenendo ciò che c’era e aggiungendo solo gli elementi necessari a renderla abitabile oggi: un bagno funzionale, una cucina più pratica.
Durante i lavori ci siamo accorte di quanto anche le soluzioni di nostro padre fossero state intelligenti e innovative, come il lucernario geometrico della cucina. Abbiamo sostituito i vetri, modernizzato l’impianto, ma mantenuto la struttura. Lo definiamo un “restauro di un restauro”: rispettoso, stratificato, consapevole del fatto che ogni epoca lascia un segno.
Nei vostri progetti emerge sempre una grande attenzione al dialogo con il contesto, urbano e rurale. Come si bilancia innovazione e memoria dei luoghi?
Il nostro approccio non è mai dissonante. Lavoriamo per continuità, per inserire ogni progetto in una storia che c’era prima e che continuerà dopo. Questo non significa rinunciare all’innovazione, ma cercare che essa scaturisca da un dialogo con il contesto, e non da una rottura.
Un esempio emblematico è l’edificio di Rua das Adelas a Lisbona: una facciata contemporanea che cerca continuità con la città. La metrica riprende le proporzioni e le geometrie degli edifici circostanti, con la volontà di creare un basamento solido e al tempo stesso ripensare un sito segnato dalle due diverse quote della strada. La geometria della facciata nasce dall’azulejo stesso: nessun pezzo tagliato, ma una composizione rigorosa che ha imposto le sue regole alla progettazione architettonica. È stato un lavoro di precisione quasi sartoriale, in cui arte e architettura si fondono.
In più occasioni il vostro lavoro ha dialogato con il mondo dell’arte. In quale progetto questa relazione vi sembra essere stata più significativa?
Il progetto “Cota Zero”, nella stazione intermodale di Terreiro do Paço a Lisbona, resta per noi il più rappresentativo. Oltre 20.000 azulejos numerati a mano, un soffitto che diventa un paesaggio astratto e al tempo stesso un segno urbano quotidiano. È stato un lavoro faticoso e complesso, inizialmente accolto con diffidenza dai costruttori, ma che ha poi generato un legame straordinario con la squadra di cantiere.
Oggi quella stazione è attraversata ogni giorno da migliaia di persone. Ci piace pensare che non sia solo un’infrastruttura, ma anche un’esperienza estetica quotidiana. Non un’opera da contemplare in un museo, ma un ambiente vivo in cui arte e architettura si fondono, diventando parte della vita urbana.
La questione abitativa è oggi centrale, tra aumento dei costi e trasformazioni sociali. Quali sono i punti chiave, secondo voi, di una progettazione abitativa contemporanea?
Il tema è delicato: il costo della costruzione è quintuplicato rispetto ai nostri inizi e questo rende difficile immaginare politiche di edilizia accessibile. Spesso i progetti devono adattarsi a soluzioni più semplici, anche per la scarsità di manodopera qualificata.
In questo contesto, pensiamo che sia cruciale ridare valore alla dimensione artigianale e ai materiali, oggi sempre più rari e preziosi. Molti mestieri stanno scomparendo perché le nuove generazioni non li scelgono più, eppure restano fondamentali per la qualità dell’abitare.
Parallelamente, pensiamo che la casa debba essere progettata con un’idea di durabilità, adattabilità e sostenibilità reale, privilegiando soluzioni passive – orientamento, ventilazione, spessori murari, ombreggiamenti – che riducono i consumi e migliorano il comfort. La tecnologia può integrare, ma non sostituire questi principi di base, che guidano ogni nostro progetto.
Se doveste definire con tre parole la direzione futura del vostro studio, quali sarebbero?
“Repensar, adaptar, criar”. Tre verbi che riassumono il nostro atteggiamento: ripensare costantemente, adattarsi ai cambiamenti e mantenere viva la creatività. Sono le basi che ci fanno immaginare un futuro lungo, perché non vediamo mai una fine a questo mestiere: continueremo a disegnare e progettare finché ci sarà energia per farlo.
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Portogallo
Last modified: 10 Settembre 2025