La crisi politica e urbanistica della città lombarda genera un dibattito che va oltre i limiti della disciplina. Ne parliamo con chi interpreta i sentimenti dei suoi luoghi e della sua comunità
MILANO. Indagini e dimissioni, sequestri e polemiche. L’urbanistica in mezzo a un nuovo terremoto. Quello che era considerato da molti un modello, è oggi additato come sinonimo di malaffare. Il colloquio con Andrea Kerbaker – scrittore e intellettuale milanese, cattedra all’Università Cattolica, firma del “Corriere della Sera” – permette di affrontare la difficile condizione attuale attraverso la prospettiva della cultura, urbana innanzitutto.
Nel tuo Stradario sentimentale di Milano. Storie della città che cambia, introduci questo aggettivo che rimanda al termine sentimento, non così comune quando si parla di città. Un termine che vorrei intendere in maniera biunivoca: il sentimento che si ha verso una città e le sue vie, ma anche il sentimento che ha la città. Come abbiamo imparato a prendere in considerazione il genius loci, dovremmo anche tenere presente quello che chiamerei l’animus urbis. Andrea Kerbaker, quale è il sentimento di Milano?
Sentimentale è un aggettivo ambivalente e anche ambiguo perché, al di là dei moti dell’animo, che possono essere progressivi, ti riporta alle tue sensazioni nostalgiche che nella gran parte dei casi sono per la conservazione di quello che è stato. A Milano il sentimento manifesta storicamente questa ambivalenza: di una città che è sempre stata italiana, ma anche europea, intellettuale ma con il famoso cuore in mano, fredda ma accogliente, come ci riconoscono quasi tutti. E accoglie anche le idee. Ne ha saputo raccogliere tante che provenivano dall’esterno per poi metterle in un grande frullatore da cui usciva la sua identità. Di questa ambivalenza fa parte la politica: Milano esercita il potere, ma lo fa soprattutto con l’impalpabile fruscio del denaro, non con l’esibizione delle auto blu, che detesta. Allo stesso modo è equilibrata di natura, ma mal sopporta gli ostacoli burocratici quando non ne comprende il senso. Il vecchio slogan leghista “Roma ladrona”, nato in regione con un senso letterale, a Milano non è mai stato inteso tanto nella sua accezione economica, quanto per la non sopportazione del vincolo dell’applicazione burocratica della regola. Questo può provocare, a volte, delle fughe in avanti, come è successo anche di recente. Ma poi il sentimento della città è trovare l’equilibrio fra queste posizioni: non farsi bloccare nello sviluppo, ma, al contempo, non fare il passo più lungo della gamba. A suo tempo, nel caso di Mani Pulite è stata la città stessa a saper ritrovare gli anticorpi e un modo equilibrato di crescere. Quell’esperienza ci dà fiducia nelle possibilità di Milano, anche oggi.
La cronaca di questi giorni e degli ultimi mesi (nella quale non vogliamo entrare, ma che non possiamo certo ignorare) ha riportato in auge un termine che era quasi stato dimenticato: urbanistica, concetto offuscato dalla potenza dell’architettura oggetto o architettura evento, come è stata definita. Molti fanno risalire il cambiamento di Milano all’Expo 2015 ma dimostrano una certa miopia, in quanto i grandi processi che hanno coinvolto la città sono partiti ben prima, con la dismissione delle grandi aree industriali (esemplare quella di Bicocca/Pirelli negli anni ottanta) poi con aree piccole e grandi e con processi spontanei per tutti i novanta per arrivare all’inizio del millennio alla delocalizzazione della fiera (che libera le aree che poi diverranno City Life) e alla risoluzione del nodo del centro direzionale, lasciato languire per quasi mezzo secolo nell’area delle Varesine, ora Garibaldi Repubblica. Expo 2015 presenta la “nuova” Milano al mondo e da lì partono gli altri processi che sono sotto gli occhi di tutti, anche dei più distratti. Su un fatto non possiamo che essere tutti d’accordo: Milano è cambiata. Come, dal tuo punto di vista?
A piccoli passi. Questo si è notato in anni recenti, da Expo in poi, ma la città è cambiata in tempi lunghi. Città industriale, brutta per unanime definizione anche dei suoi cittadini, ha affrontato la fine del suo modello produttivo del XX secolo cercando di individuare una soluzione in modo non settario. È, di nuovo, il sentimento cittadino prevalente: quando a Milano finisce qualcosa, si cerca, magari con lentezza e con un naturale understatement, di affrontare i cambiamenti. La prima trasformazione postindustriale rilevante avviene a partire dagli anni ottanta, quando la città inizia a mutare pelle, da centro di produzione diventa sede di terziario, e coerentemente si occupa della sistemazione di una serie di aree. Tra queste la Bicocca che citi e che vede un grande concorso internazionale, con una partecipazione importante di architetti di tutto il mondo. Ho avuto la fortuna di vivere in prima persona quell’esperienza, constatando anche l’elasticità delle modalità di sviluppo: il progetto era nato per dar vita a un polo tecnologico integrato, ma all’inizio del processo di pianificazione si è capito che quel modello era già vecchio ed è stato modificato in corso d’opera introducendo l’università, all’inizio non prevista. Così è andata per la maggior parte delle aree industriali dismesse, affrontate senza troppi patemi d’animo, a volte senza neanche una grande chiarezza di visione dei possibili risultati. Anche l’area Fiera in qualche modo è andata così: a un certo punto il modello della Campionaria si esaurisce e Milano, quasi senza saperlo, inventa un modello sostitutivo che è il Salone del Mobile, in verità nato già nel 1961, e che nel tempo genera il Fuori Salone, modello nel modello. Nello spostare la Fiera fuori città esplode la città al suo interno: un fenomeno che in ogni caso nasce piano piano. Quando ero studente guardavo i supplementi che uscivano coi giornali in occasione del Salone e mi ricordo di aver detto ad un mio compagno: io non so cosa sia il design, ma so che comprerei tutti questi oggetti. Nasceva il desiderio verso un mondo che sarebbe presto diventato determinante. Il processo di trasformazione dell’area parte molto più tardi ed è ancora in corso di cambiamenti. Allo stesso modo, passo dopo passo, con diversi progetti, anche in aree dismesse, Milano diventa città universitaria. Insomma, le architetture nuove del tempo di Expo sono state emblematiche ma non ci sarebbero state senza i processi partiti in precedenza.
Cosa è andato male in questo cambiamento?
Certamente c’è stata una scarsa attenzione al verde. Penso al bel progetto che Claudio Abbado voleva donare alla città e che rimase inattuato, ad esempio. È una sottovalutazione storica: giusto per fare un esempio, nella rigenerazione di Garibaldi Repubblica il progetto della Biblioteca degli Alberi arriva per ultimo, dopo tutti gli edifici; e non è un caso, ma volontà. E se, mentre nasceva la nuova Bicocca, suggerivi al mio amato Vittorio Gregotti di mettere qualche albero qua e là, ti fulminava con lo sguardo dei suoi occhi limpidissimi. Un altro difetto, del quale si parla molto, è la mancanza di attenzione alle periferie. Il progetto Bicocca si proponeva di riqualificare le aree più esterne, di renderle migliori e più appetibili per gli abitanti di quei quartieri; non so se ci sia riuscito; ma il proposito c’era. Oggi si stenta a vedere intenzioni di questo tipo: l’espansione attraverso edifici sempre più grandi e sempre più costosi si concentra prevalentemente nelle aree centrali o semicentrali.
In questo quadro si inserisce il problema degli alloggi per studenti, che esplode un paio d’anni fa, quando una studentessa mette una tenda di fronte al Politecnico. E tuttavia anche in questo caso il fenomeno ha radici lontane, e resto convinto che gli amministratori dovevano accorgersene prima. La cosa vale anche per noi cittadini di lungo corso: pur avendo tutti i nostri figli in queste condizioni, non ce ne siamo accorti. Ma le colpe più gravi sono della gestione cittadina e risalgono ad almeno 30 anni fa: se negli anni novanta tu, amministratore della città, vedi arrivare i signori della Pirelli e insediare un polo universitario a Bicocca, se poco dopo la Bocconi costruisce un nuovo edificio e poi un nuovo campus, se la Cattolica si compra la caserma, se il Politecnico si espande a Bovisa, se lo IULM oltre la seconda cerchia dà vita ad un complesso completamente nuovo, se dopo tutto questo non pensi che saranno attratti nuovi studenti in gran numero e non ti poni il problema delle loro residenze, manchi clamorosamente di una capacità che la città storicamente aveva sempre avuto, anche in anni non troppo lontani. Quella capacità che la metropoli del dopoguerra, dopo la ricostruzione, aveva abbondantemente mostrato. Quando arriva la grande immigrazione portata dalle industrie negli anni cinquanta e sessanta la città provvede a costruire degli edifici per ospitarla. Magari l’edilizia popolare non è stata di grande livello, però è stata realizzata. Come mai nel caso degli studenti la città, intesa come la sua amministrazione, si è così distratta? Era un problema affrontabile, magari allargando l’orizzonte all’hinterland, a quella provincia mai coinvolta appieno nei cambiamenti. Questa è stata una distrazione che non capisco.
Sempre la cronaca ci racconta di responsabilità che verranno valutate da chi di dovere nelle opportune sedi. Sembra però abbastanza chiaro che urbanistica e architettura, le più “sociali” delle attività che riguardano il disegno della città (e, quindi, la vita di tutti), se rimangono all’interno di una ristretta cerchia di persone rischiano di produrre delle distorsioni e non di rappresentare un esercizio di democrazia, come dovrebbe essere. Tu invitavi tutti a prendere coscienza e conoscenza delle nostre vie, dei nostri edifici, delle nostre piazze, dei nostri parchi, a entrare in contatto con l’architettura e con i suoi autori. Forse soffriamo di una mancanza di cultura in generale e di cultura architettonica in particolare. Come possiamo portare l’architettura ai cittadini e i cittadini all’architettura?
Può sembrare banale ma c’è, prima di tutto, un problema di linguaggio. Gli architetti, e prima di loro gli urbanisti, tendono a parlare un loro gergo, il famoso “architettese”, spesso poco comprensibile anche a persone qualificate ma che non fanno parte di quel settore. Questo rende ostica la materia anche a persone potenzialmente interessate. Ad esempio, credo che poche cose siano malfatte come i pannelli informativi che stanno di fronte agli edifici storici, pieni di tecnicismi incomprensibili e che, alla terza riga, il lettore abbandona.
Ho l’impressione che la casta degli addetti ai lavori, soprattutto degli architetti, non abbia voglia di parlare con chi non fa parte della propria cerchia, non senta, quindi, il bisogno di raccontarsi e di raccontare. Questo è un problema che riguarda tutto il mondo della cultura, in verità, e rende il dialogo più difficile e anche meno soddisfacente: credo che l’attenzione di un pubblico più ampio generi soddisfazione per tutti e contribuisca ad aumentare il livello della cultura generale. Raccontare le storie architettoniche degli edifici, anche i più normali, significa raccontare un pezzo della storia in una città che, nella sua urbanizzazione, ha vissuto fasi drammatiche come la guerra con distruzioni e ricostruzioni. Credo che alla gente interessi conoscere queste storie e non si debba avere paura del confronto. Altrimenti si finisce per parlare del ponte Morandi solo quando cade.
Andrea Kerbaker, in questo momento, Milano sta soffrendo?
No. Ha dei problemi, quelli che abbiamo indicato e anche altri, ma no, soffrire è un’altra cosa. Milano è in buona salute e deve trovare degli anticorpi per alcuni malesseri. Ma non più di questo.
Immagine di copertina: Andrea Kerbaker
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interviste , Milano , urbanistica
Last modified: 23 Luglio 2025