Gli impatti spaziali delle crisi climatiche al centro dell’intervista con lo storico, critico e teorico dell’architettura, olandese, docente a Toronto
“L’identità dei luoghi è legata alla loro percezione. E cambiando temperature e climi dobbiamo abituarci a ripensare all’immagine stessa dello spazio e del patrimonio pubblico“. Hans Ibelings ha un’intensa frequentazione, da critico e osservatore, di città e territori europei e nordamericani. Come anche di eventi culturali. Recente la sua nomina, insieme a John Zeppetelli, a curatore della Biennale di Coimbra 2026. Per questo il suo punto di vista sulle conseguenze architettoniche dei cambiamenti climatici risulta particolarmente profonda e capace di aprire prospettive per certi versi inedite: gli abbiamo posto alcune domande.
Nel suo libro “Modern Architecture: A Planetary Warming History” (ne abbiamo parlato qui), lei propone una rilettura radicale della storia dell’architettura moderna, mostrando come i processi costruttivi e i materiali industriali siano parte integrante – e diretta causa – della crisi climatica globale. L’architettura cosiddetta sostenibile, nel senso più ampio del termine, rappresenta davvero un nuovo modo di progettare? Oppure è spesso solo un modo per mascherare pratiche ancora insostenibili?
Credo che quella che chiamiamo architettura sostenibile abbia apportato un miglioramento solo marginale in termini di impatto ambientale, ma, al tempo stesso, è molto importante questa attenzione alla sostenibilità. Si tratta di una questione che riguarda il nostro approccio alla sostenibilità e la scala alla quale scegliamo di osservarla. Penso, ad esempio, al caso della Norvegia e all’uso dei crediti di carbonio come forma di compensazione delle emissioni nei confronti di Paesi a basso reddito. È comunque davvero difficile pensare all’architettura come un’attività veramente sostenibile dal punto di vista climatico e ambientale: anche questo tipo di architettura è un’attività estrattiva e che inevitabilmente modifica la crosta terrestre.
Vista la scala planetaria della crisi, ha senso pensare all’architettura sostenibile come una cifra dominante dell’architettura contemporanea, soprattutto nel contesto occidentale?
A dire il vero no. C’è un ampio dibattito sulla sostenibilità ma credo che, in realtà, la maggior parte dei processi costruttivi siano ancora molto legati alla tradizione del moderno, producendo materiali altamente energivori e costruendo e demolendo moltissimo. Non parliamo solo di Occidente: oggi i responsabili dei 2/3 delle emissioni globali di CO2 legate a processi edilizi sono solamente una decina di Paesi, tra cui anche Cina e India.
Ripensando al concetto di genius loci elaborato da Christian Norberg-Schulz – in cui i fattori atmosferici sono parte integrante dello spirito del luogo – è possibile pensare che oggi sia necessario accettare che l’identità stessa dei luoghi possa essere considerata come mutabile e modificabile, forse persino progettabile? In altre parole: il concetto di genius loci può sopravvivere al cambiamento climatico, oppure è necessario avviare una riflessione per ripensarlo radicalmente?
È interessante riflettere su quella che è sempre stata considerata come l’atmosfera tradizionale di un luogo e che ora subisce importanti cambiamenti dovuti al surriscaldamento globale. Mi viene in mente la Biennale di Versailles di quest’anno curata da Philippe Rahm e Sara Frini, intitolata “Quatre degrés Celsius entre toi et moi”, che indaga sulle trasformazioni radicali che il clima francese subirà nei prossimi decenni: i curatori sostengono la necessità di guardare alle soluzioni costruttive sviluppate nelle regioni subtropicali, mediterranee, aride e tropicali.
Ci sono stati cambiamenti climatici importanti anche in passato, come, ad esempio, quella che viene chiamata “la piccola era glaciale”, un periodo tra il XVI e il XIX in cui si registrarono in Europa temperature sensibilmente più basse rispetto ai secoli precedenti, come testimoniano rappresentazioni e dipinti. Chiaramente oggi, per proteggerci dal caldo, dobbiamo reinterpretare e ripensare l’architettura tradizionale: se in passato, in alcuni casi, le soluzioni architettoniche dovevano catturare il sole, oggi dobbiamo indagare soluzioni per schermarci dalla luce e dal calore.
Questo tema si collega alla prossima domanda. Nelle città europee è sempre più evidente il cortocircuito tra l’architettura storica, le mutate condizioni climatiche e la qualità della vita che lo spazio urbano oggi non riesce più a garantire. Quando si parla di adattamento, il dibattito tende a concentrarsi sulle soluzioni tecnologiche. Ma è possibile pensare all’adattamento anche come un ripensamento culturale dell’immagine della città?
Ci sarebbe molto da dire su questo argomento. Ad esempio, nel nord Europa negli scorsi decenni non era scontato poter usufruire dello spazio pubblico delle città, proprio a causa delle condizioni climatiche. Ho vissuto per un lungo periodo ad Amsterdam e ho notato come negli ultimi anni (anche a causa di un forte incremento dei flussi turistici e dei consumi in generale) siano decisamente aumentati bar e ristoranti con sedute all’aperto. C’è senz’altro una correlazione tra questo fenomeno e la possibilità di poter usufruire dello spazio aperto causata dall’innalzamento delle temperature. Questo accade anche nei paesi scandinavi. Si tratta di ragionare su nuovi modi di vivere lo spazio pubblico. Oggi, in Europa, queste riflessioni sono ancora il prodotto dei progetti avviati a Barcellona in occasione delle Olimpiadi del 1992, che hanno portato a realizzare grandi superfici minerali con un singolo albero al centro: questo genere di soluzioni oggi sono chiaramente inadatte per molti contesti urbani. Pensando anche agli Stati Uniti, la pianificazione urbana è sempre stata regolata dal principio secondo il quale gli edifici non dovrebbero proiettare ombra sullo spazio pubblico, mentre oggi tale regola è completamente ribaltata.
Anche in contesti storici, come possono essere quelli del centro di Roma, c’è un dibattito in merito: molte piazze, soprattutto nel centro storico, sono prive di vegetazione. Questo preserva l’immagine della città ma, al tempo stesso, rende questi spazi sempre meno fruibili.
Potresti immaginare piazza Navona piena di alberi? Io sinceramente sì. Possiamo accettare che sia possibile modificare il modo in cui siamo abituati a vedere lo spazio costruito. Credo che sia un tema molto interessante quello di ripensare a quella che noi reputiamo sia l’immagine tradizionale dei centri storici o dei monumenti e il modo in cui li percepiamo o siamo abituati a percepirli. Se pensiamo a Roma prima dell’unità d’Italia, vaste porzioni dell’agro romano invadevano e caratterizzavano lo spazio urbano; forse bisogna solo integrare questa idea nell’immagine che abbiamo di Roma oggi. Anche se l’inserimento della vegetazione non sempre rappresenta una soluzione, sarebbe davvero interessante avviare una riflessione sulle conseguenze del cambiamento climatico sul patrimonio storico. Città come Milano o Parigi hanno iniziato ad investire sull’introduzione di vegetazione all’interno della città consolidata, apportando una differente qualità abitativa dello spazio pubblico.
Un altro tema molto interessante è legato al fatto che i monumenti storici, come effetto dell’era moderna, vengono considerati oggetti singoli isolati e, in quanto intoccabili, separati dalla vita della città, specialmente in Italia. Si potrebbe riflettere sulla crisi climatica (anch’essa conseguenza dell’era moderna), in questo caso come opportunità per reinterpretare il valore dei monumenti, anche in relazione al grado di stress che questi edifici subiscono a causa degli eventi metereologici estremi. In definitiva, un ripensamento della nostra percezione delle città e dello spazio che abitiamo non solo è possibile, ma è anche sempre più necessario.
Immagine di copertina: https://maaslawrence.com
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cambiamento climatico , hans ibelings , interviste , patrimonio , storia
Last modified: 23 Luglio 2025