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Ana Tostões: l’architettura è (ancora) coloniale

Ana Tostões: l’architettura è (ancora) coloniale
Intervista alla storica portoghese, già presidente di Docomomo International, a margine della sua conferenza per Mantovarchitettura sui temi più attuali

 

MANTOVA. Colonialismo, de-colonialismo, neo-colonialismo. Clima e adattamento. Patrimonio, memoria, identità culturale. Parla dei paesi africani ma interpreta il mondo. “Perché lo scambio è sempre duplice: nord e sud, est ed ovest si incontrano”, dice, alternando italiano, inglese e portoghese. La presenza di Ana Tostões – architetta, critica e storica, già presidente di Docomomo International (ora dirige la sezione portoghese), docente all’Università di Lisbona – è l’occasione per un confronto che si muove tra le geografie variabili del mondo contemporaneo, così come tra storia e attualità.

Davide Del Curto e l’organizzazione del Polo di Mantova del Politecnico di Milano (dove insegna come visiting professor) l’hanno invitata per l’edizione 2025 di Mantovarchitettura. La sua conferenza, introdotta da Michela Pilotti, è pienamente coerente con il tema generale del rapporto tra architettura e conflitto e assume, sin dal titolo – “Architecture and Conflict. African Modernity, climate and culture” – il continente africano come chiave di lettura.

 

Le immagini delle architetture moderne africane, molte bellissime, sono lo sfondo di questa lezione. Un esempio di colonialismo.
Assolutamente sì, ed è importante ricordarcelo. Il Movimento Moderno è stato un processo coloniale, sviluppato da tanti progettisti convinti che l’architettura potesse essere la ricetta magica per portare salute, qualità, bellezza e felicità dove si pensava ce ne fosse di meno, ovvero in Africa. Una tendenza che rifletteva la colonizzazione, politica, dei paesi meno industrializzati e la suddivisione di un continente intero per sfere di influenze. Un fenomeno sperimentato anche dall’Italia. Con ancora più forza l’abbiamo vissuto noi, in Portogallo: un piccolo paese che si è ritrovato a governare territori enormemente più grandi.

Realizzando un patrimonio architettonico di straordinario valore…
Che la decolonizzazione, quando è arrivata, ha in parte distrutto. Le guerre che sono seguite hanno portato alla demolizione di molti edifici. Molti altri sono stati vittime di mancata manutenzione per anni. Tante città hanno conosciuto fasi di forte degrado. 

Questo riguarda anche una visione del patrimonio che sta cambiando?
C’è patrimonio quando il valore di un luogo, di un’architettura, è condiviso da una comunità. Ogni cultura ha un accento diverso: quella occidentale è molto legata alla materia e alla materialità: preserviamo quello che esiste per trasmetterlo alle generazioni successive. In Asia, ad esempio, il punto di arrivo è lo stesso – la trasmissione ai giovani – ma con un processo diverso: periodicamente ricostruire. In Africa si sta sviluppando un rapporto nuovo con gli emblemi del passato coloniale. Questo patrimonio rappresenta la vita della comunità. Anche se quegli edifici e quei monumenti sono stati costruiti da un potere diverso, sono stati fisicamente realizzati dalle persone, spesso invisibili, di quelle comunità. E allora sono un patrimonio condiviso. 

Cinquant’anni dopo sono cambiati governi e processi politici. Possiamo dire che il colonialismo è alle spalle?
No, è un colonialismo diverso ma esiste ancora, è di natura politica ed economica. E l’architettura è uno strumento. Ancora vengono propagandate e spacciate visioni di un futuro radioso e brillante, che prefigura un modello di successo consumista: possiamo chiamarlo modello Dubai. E gli architetti si adattano, propongono i modelli che piacciono al potere, a cui talvolta sono strettamente legati. Penso ai progetti dello Studio Hadid: grandi edifici, bellissimi e seduttivi, che richiedono enormi quantità di energia, lontanissimi da quanto ci insegnano le tradizioni costruttive locali. Hanno successo perché spacciano un’idea di progresso, che è sinonimo di gentrification. Ma anche perché le città africane si costruiscono non con processi lineari, ma per salti. Con rapide e voraci sostituzioni di quartieri interi. Spesso prevale un modello che non tiene conto delle enormi emergenze che toccano tutto il Pianeta, ma l’Africa in particolare: dalla siccità alla crisi alimentare. 

La Biennale di Venezia 2023, curata da Lesley Lokko, ha contribuito a sviluppare un processo di consapevolezza della cultura architettonica occidentale sulle sfide dei paesi africani?
Le manifestazioni, e la Biennale non fa eccezione, servono ad attivare processi che possono essere lunghi. Le idee che qui si sviluppano possono aver bisogno di anni per attecchire. Però certo, quella Biennale è stata un momento importante, anche se ha raccontato un’Africa che parla soprattutto inglese. Cioè vista con gli occhi di chi vive a New York o a Londra.

Le emergenze che vive oggi l’Africa, a causa dei cambiamenti climatici, potrebbero arrivare presto a latitudini più settentrionali. La nostra cultura architettonica è disponibile a prendere ispirazione?
Non credo, mi sembra troppo arrogante. Ma voglio essere ottimista: ci sono tante eccezioni. Penso ad alcuni studi di progettazione, alle università, alle giovani generazioni.

Iniziamo dai primi.
Trent’anni fa lo studio Lacaton & Vassal, francese ma non parigino (e questo è un elemento importante), ha iniziato a costruire un percorso di consapevolezza e di sensibilità che tiene insieme l’aspetto sociale con quello geografico e climatico. Penso al lavoro sulla riqualificazione dei complessi di social housing. Hanno scommesso sul fatto che fosse possibile portare qualità e spazi nelle case popolari, senza la necessità di demolire gli edifici, anche se sembravano non più adatti. Hanno progettato e costruito da una prospettiva creativa, aggiungendo gioia dove prima c’era tristezza e trascuratezza. Il fatto che abbiano vinto il Premio Pritzker alcuni anni fa è un riconoscimento straordinario.

Soprattutto per i progettisti più giovani.
Le studentesse e gli studenti che incontro non sono interessati ad un’architettura che sia bella dal punto di vista formale. Ma che sia sostenibile, da un punto di vista sociale ed ambientale. E che quindi sviluppi relazioni e connessioni con altre competenze ed esperienze. Vogliono questo, cercano questo. 

Non è una deriva pericolosa per la disciplina?
Può esserlo, è vero, non dobbiamo dimenticare dell’architettura come disciplina. Serve un nuovo equilibrio. Non sto dicendo di tralasciare l’architettura come disciplina autonoma e chiave per lo sviluppo della società. Anzi, per me è fondamentale che le lezioni di chi ha costruito il senso stesso di architettura, da Leonardo Da Vinci a Vitruvio, siano ancora al centro dell’attenzione di tutti. Non vogliamo perdere la trascendenza e la capacità poetica di produrre emozione, che sono propri dell’architettura.

Questa visione fa parte dell’esigenza di “cambiare il punto di vista sul mondo”?
Ho adottato questa definizione nella mia ricerca. L’osservazione permette di cogliere i punti di contatto e le possibili connessioni. Noi siamo stati colonizzatori ma anche colonizzati. Penso ad esempio all’epoca romana, a quello che ha fatto e che ha realizzato. I rapporti sono bilaterali e duplici, mai unilaterali. Per questo osservare oggi i processi africani permette di comprendere meglio le dinamiche di questo mondo complesso cercando di capire il futuro. Il tema di Mantovarchitettura è proprio quello dell’architettura e del conflitto. Stiamo lavorando nel workshop con gli studenti cercando di rafforzare la nostra disciplina a partire del tema del patrimonio e confrontandoci con il rapporto tra antico e nuovo. Partendo dall’esempio che ci offre la splendida Mantova.

 

Immagine di copertina: ritratto di Ana Tostões, Mantova, 2025 (@Luca Dal Corso per Mantovarchitettura)

Autore

  • Michele Roda

    Architetto e giornalista pubblicista. Nato nel 1978, vive e lavora tra Como e Milano (dove svolge attività didattica e di ricerca al Politecnico). Dal 2025 è direttore de ilgiornaledellarchitettura.com

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Last modified: 29 Maggio 2025