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Written by: Professione e Formazione

Elizabeth Diller: la costruzione è sempre un fatto instabile

Elizabeth Diller: la costruzione è sempre un fatto instabile
Intervista alla progettista nei giorni della scomparsa del partner, Ricardo Scofidio (1935-2025)

 

ROMA. Chiude simbolicamente in questi giorni, al MAXXI di Roma, una mostra che vede i progettisti-curatori alle prese con un tema ampio, che definiscono Architettura instabile.

Protagonista è lo studio Diller&Scofidio+Renfro, il cui lavoro ha sempre rappresentato una sentinella e uno sguardo originale sulle trasformazioni della società contemporanea. Un ruolo che rende ancora più triste la notizia della recente scomparsa di Ricardo Scofidio. 

Il sito web dello studio lo ricorda con queste parole: “Ricardo Scofidio (1935-2025). È con grande tristezza che annunciamo che il fondatore di DS+R Ricardo Scofidio è scomparso serenamente il 6 marzo 2025 all’età di 89 anni. Era circondato dalla famiglia, tra cui la sua compagna nella vita e nel lavoro, Elizabeth Diller. Ric ha avuto un profondo impatto sulla nostra attività professionale, fondando lo studio con la missione di costruire spazio. I soci e i dirigenti dello studio, molti dei quali hanno collaborato con lui per decenni, estenderanno la sua eredità nel lavoro che continueremo a svolgere ogni giorno”.

Solo pochi giorni prima abbiamo incontrato e intervistato Elizabeth Diller a Roma, in occasione di una sua lezione, proprio al MAXXI, in cui presentava la pubblicazione Architecture Not Architecture (Phaidon).

Le sue parole sono anche un modo per ricordare una figura nodale della cultura architettonica occidentale.

 

 

Esplorazioni costanti e dinamismo creativo

La mostra si sviluppa attorno a una parola che caratterizza a diversi livelli la contemporaneità ma che diventa anche un atteggiamento: instabilità. Simboleggia una condizione interpretativa duplice: può essere vista come ansia, preoccupazione e angoscia, ma anche come iperattività creativa, esplorazione costante e scoperta inattesa. 

Prima di chiedersi quale tipo di risposta architettonica può essere fornita, la società contemporanea sembra domandarsi che cosa in generale possa essere l’architettura. Una disciplina, per citare l’abstract della mostra, “che rimane lenta, pesante, costosa e inerte” mentre “il dopoguerra ha introdotto una nuova resistenza e insofferenza verso  la sua ostinata rigidità”. 

Il corpus di lavori dello studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro rappresenta una risposta, pur provvisoria, a questa domanda costante. Così come la nuova monografia: Architettura e Non-architettura è composta da due volumi paralleli che possono essere letti fianco a fianco, incrociati, mescolati, costruendo e agendo liberamente una forte integrazione tra le opere costruite e le installazioni artistiche, i cortometraggi, le fotografie, illustrando quanto la complessità espressiva risieda nei diversi media, nella loro integrazione e combinazione in rapporto allo spazio fisico e alla sua dimensione temporale. 

Emerge una nozione estesa della professione di architetto, immersa in una costante, e instabile appunto, interazione con la società. 

 

Vorremmo iniziare dal ruolo dei progettisti. Il vostro lavoro è per tanti una fonte di ispirazione, una sorta di “chiamata all’azione”. Come si può essere fattori attivi nella società, considerando il ritmo lento del cambiamento legato all’architettura? Risiede forse maggiormente nelle opere di piccola scala? La stessa High Line di New York è un progetto iniziato in piccolo, quasi concettuale, poi cresciuto inaspettatamente fino a produrre, da un approccio sperimentale, un forte impatto.

La High Line nasce da un’idea, quasi ingenua, di occuparsi di un pezzo di infrastruttura urbana e industriale che stava per essere demolito, capendo innanzitutto come salvarlo. 

Tutto si è sviluppato grazie ad alcuni attivisti, o meglio a cittadini-attivisti: ragazze e ragazzi molto giovani che hanno capito prima di tutti che quello avrebbe potuto diventare un parco. Quindi hanno coordinato una mostra di idee e poi un concorso vero e proprio, a cui abbiamo partecipato insieme ad altri studi, come quello di Zaha Hadid. Ma l’aspetto più significativo è stato l’aver collocato questo lavoro nella sfera pubblica. Ha reso le persone consapevoli che questa infrastruttura, grazie ad una visione rinnovata, poteva essere effettivamente riutilizzata. Creare questo scenario è stato l’aspetto decisivo.

In questo senso la Promenade Plantée di Parigi ha fornito un aiuto importante, abbiamo portato l’amministrazione di New York a visitarla. Ma la situazione a Manhattan era molto diversa. La High Line era vista come un habitat duro, ancora industriale. La grande domanda rimaneva come convincere la città che questa infrastruttura abbandonata potesse per davvero diventare un bene pubblico. 

Sono convinta che sia necessario essere attenti e intelligenti quando si discutono e si affrontano questi argomenti. Le città sono interessate alla crescita economica. il nostro lavoro è descrivere le cose con un linguaggio adeguato. In questo caso dovevamo spiegare che stava per essere cancellata una memoria. Dovevamo esprimere l’idea alternativa: poteva diventare un luogo piacevole e salutare per le persone che ci vivono, ma anche generare un incremento delle entrate, sotto forma di tasse. Insomma, dobbiamo essere capaci di offrire una prospettiva economica. 

Questa è la parte più complicata dell’essere architetti: per sedersi, direi per essere invitati, al tavolo delle decisioni, non dobbiamo usare solo la prospettiva dell’estetica, dobbiamo capire cosa significa la trasformazione per i decisori. In genere la società ha paura del cambiamento. E allora noi dobbiamo mostrare come questo cambiamento può diventare un fatto positivo. 

Ecco perché ho imparato a parlare con molti linguaggi, e soprattutto con un diverso tono nei diversi contesti. In questo senso, il progetto del Lincoln Center è stato un test straordinario. Iniziato nel 2004 è durato più di 10 anni, con un cliente che aveva idee in continuo cambiamento. Erano tutti molto preoccupati che potessimo innovare qualcosa mentre la comunità, che era sempre stata esclusa da quell’area, era preoccupata che lo sarebbe stata ulteriormente. 

Abbiamo avuto successo dicendo fondamentalmente la stessa cosa ma in modi leggermente diversi, con parole che potevano essere capite e apprezzate dai vari interlocutori. Stesso progetto, stesso messaggio, solo linguaggi diversi.

 

Strettamente collegato a questo discorso è il rapporto con la costruzione, considerando anche il background di studi con John Hejduk. Qual è stato il motore che vi ha fatto sviluppare la curiosità per la costruzione e l’edificio?

Beh, abbiamo sempre creduto negli edifici. Durante il periodo dell’architettura di carta (quando molti dei nostri colleghi realizzavano bellissimi disegni, da pubblicare in libri o da esporre in gallerie, ma in cui si costruiva molto poco) insistevamo nel voler realizzare spazi pubblici.

Anche con azioni poco costose e di brevissima durata. Erano utili per rendere spazialmente e fisicamente reale la trasformazione, oltre che per sviluppare un dialogo con il pubblico. 

La ricerca di tale dialogo è per noi uno sforzo intellettuale tanto quanto lo è il disegno. Costruire non significa soltanto dare risposta ad un cliente che ha una necessità e un budget per realizzare qualcosa destinato a durare per sempre. 

Mi sono formata nel periodo in cui John Hejduk insegnava alla Cooper Union. A quel tempo nutrivo molta diffidenza nei confronti della professione. In effetti non avevo mai voluto essere un architetto professionista; amavo solo, molto, la formazione dell’architetto.  Il passo decisivo è stato in occasione del nostro primo progetto, una casa privata. Allora mi sono resa conto dell’importanza della costruzione. Ho iniziato a realizzare che era possibile avere un’idea e poi vederla realizzata concretamente. Quella casa alla fine non è stata costruita, il cliente era un collezionista d’arte che dopo aver concluso le fondazioni ha perso i finanziamenti. 

Certamente è stata una delusione, ma proprio in quell’occasione abbiamo iniziato a capire che era possibile sviluppare il lavoro di ricerca indipendente e autonomo, che avevamo portato avanti fino a quel momento, applicandolo alle strutture architettoniche. 

Infatti, il libro che presentiamo è diviso in due parti, l’architettura e la non-architettura. Il pensiero è lo stesso e i progetti si contaminano a vicenda. L’uno non potrebbe esistere senza l’altro.

Ecco perché continueremo sempre a fare progetti teorici tanto quanto progetti che si concretizzano in edifici.

Immagine di copertina: MAXXI, Architettura Instabile, allestimento (courtesy MAXXI, © Vincenzo Labellarte)

Autore

  • Stefano Converso

    Architetto, si occupa soprattutto dei rapporti tra cultura progettuale e tecnologie digitali avanzate. Collabora con diversi professionisti e aziende, oltre che con istituzioni, e lavora su questi temi da diversi anni presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre in ambito didattico e di ricerca con un particolare focus sull’innovazione e il suo trasferimento tecnologico nella progettazione architettonica. Ha pubblicato monografie e articoli su diverse riviste del settore, tra cui Il Giornale dell’Architettura, e condotto seminari in Italia e all’estero, lavorando in particolare in contatto con gli Stati Uniti.

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Last modified: 11 Marzo 2025