Riflessione critica su significati e suggestioni degli incendi in corso in California
Los Angeles brucia, come nel 64 D.C. bruciava Roma, la capitale dell’impero; originariamente fu accusato Nerone, in realtà gli incendi accadevano spesso nella città eterna. Il fuoco come atto di liberazione e purificazione veniva usato nel medioevo quando si allestivano i roghi per le streghe e gli eretici. Il fuoco di Los Angeles è il vero Big One. Non lo è il terremoto temuto lungo la faglia di San Andreas. La città degli angeli, la metropoli che raccoglie in sé il sogno tra nobiltà e miseria: nobiltà di riuscire a realizzarsi professionalmente, l’American Dream, e la miseria di finire a dormire sotto i ponti, in strada.
La città che si è sviluppata senza regole urbanistiche, senza un centro definito, con una downtown che di fatto non lo è, solo per poter affermare che esiste quel gruppuscolo di grattacieli che, invece, a New York e Chicago rappresentano il vero fulcro della città.
Città degli opposti
Ma Los Angeles è il bello e il brutto dell’America. Un luogo dove puoi realizzare i tuoi sogni che produce il cinema, ma anche il brutto di una città diseguale dove è più evidente il divario tra ricchi e poveri. In una sola città si condensano una serie di questioni che il cinema ci ha posto innanzi contribuendo ad alimentarne il fascino. Violenza, creatività, filantropia, povertà, arte, architettura, musica convivono a formare questa incredibile metropoli che aveva affascinato lo storico britannico Reyner P. Banham. Aveva attraversato i suoi deserti, le sue Freeway, raccogliendo due memorabili libri: Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies (1971) e Scenes in America Deserta (1982).
Nel 1968 scrive un articolo per The Listener dal titolo emblematico Encounter Sunset Boulevard: “Los Angeles è spettacolarmente unica tra le grandi città del mondo. È vasta in superficie, sebbene non molto più vasta dell’area definita dai pendolari a lunga distanza verso Londra. In quella superficie, i cittadini vivono a densità notevolmente basse, anche se non molto più basse, sospetto, di Oslo o Stoccolma. E vivono quasi interamente in case a un solo piano circondate da uno stile di orticoltura che è un incrocio tra la tradizione anglosassone e quella tropicale, e come niente al mondo se non forse Perth nell’Australia occidentale. Ciò che confonde è che l’habitat umano di base offerto da casa e giardino è lo stesso sia nelle esclusive Beverly Hills sia nei ghetti come Watts. Altrettanto confondenti sono le distanze che gli angeleni sono disposti a percorrere all’interno della loro metropoli diffusa. Andare a prendere degli amici, portarli a cena a casa tua, riportarli a casa e poi tornare potrebbe significare percorrere 100-150 miglia in una sera […] La scala di tutto è diversa, lo stile di vita è diverso, quasi tutto è profondamente e disturbantemente diverso. Dopo la mia pessima prima esperienza a Los Angeles riesco ancora a vedere perché altri rispondono con ostilità immediata e sgomento. Le città del Vecchio Mondo e degli Stati Uniti orientali seguono molto uno schema – non ti rendi conto di quanto siano standardizzate sotto le loro tanto celebrate individualità finché non ti trovi di fronte a un luogo come Los Angeles […] Il valore unico di Los Angeles – ciò che mi eccita, mi intriga e talvolta mi respinge – è che offre alternative radicali a quasi ogni concetto urbano generalmente accettato”.
Un enorme set cinematografico
La metropoli losangelena grazie al cinema e all’architettura ha costruito un grande immaginario di sé stessa, al punto che ogni sua parte è come un set. Griffith Park è un luogo panoramico vicino alla scritta iconica Hollywood, dove nel 1935 viene aperto l’osservatorio astronomico teatro del film di Wim Wenders, The End of Violence (1997), con Andie MacDowell e Bill Pullman, dove uno scienziato interpretato da Gabriel Byrne studia un sistema di monitoraggio del crimine attraverso una serie di videocamere sparse per la città, chiaro omaggio a Orwell. Recentemente la stessa area appare nel romantico La La Land (2016), vero inno alla losangelità, protagonisti Emma Stone e Ryan Gosling.
“Ho visto di meglio – dice Mia la protagonista, quando la cinepresa la inquadra mentre osserva Los Angeles da Griffith Park e Sebastian canta: – Il sole è quasi tramontato. Si accendono le luci. Un riflesso argentato che si allunga fino al mare… Ci siamo imbattuti in un panorama fatto su misura per due”. In queste poche frasi sussurrate in una melodia romantica si cela Los Angeles.
Architetture fragili
Ma anche l’architettura fa la sua parte. Qui è nato il mid-century californiano del dopoguerra grazie agli immigrati austriaci Rudolph Schindler e Richard Neutra e allo svizzero Albert Frey che hanno rappresentato l’avanguardia di una serie di giovani talenti, da Pierre Koenig a Donald Wexler, William Krisel, Charles e Ray Eames, Raphael Soriano, A. Quincy Jones, Craig Ellwood, Gregory Ain, solo per citarne alcuni.
Nel 1945 la rivista Arts&Architecture, grazie al suo direttore John Entenza, attiva il Case Study Houses, un programma di costruzioni di architetture sperimentali residenziali, attivo fino al 1966, coinvolgendo gran parte degli architetti citati.
Architetture che esaltano l’acciaio e il vetro e che consentono alla natura di entrare dentro allo spazio domestico. Anche questa è Los Angeles. Una di queste, Case Study House #8, disegnata dai coniugi Charles e Ray Eames, situata proprio a Pacific Palisades, è in pericolo a causa dell’incendio di questi giorni, così come il Getty Center progettato da Richard Meier.
Il fenomeno – causato dal climate change negato da Donald Trump (che entrerà in carica proprio in questi giorni come 47° Presidente degli Stati Uniti d’America) – evidenzia la continua distruzione del suolo da parte del genere umano in nome del santo profitto. È la fragilità di una metropoli che contiene molte contraddizioni esemplari dell’America, in cui l’avanguardia tecnologica dell’industria cinematografica, aeronautica e aerospaziale si scontra con la vetusta rete elettrica, ancora con pali in legno a differenza di quelli in cemento che vediamo nelle città italiane.
Il legno è ancora il protagonista indiscusso del sistema costruttivo delle case fin dall’Ottocento con il balloon frame. Gran parte delle case sono realizzate così, un materiale comodo, durevole che rappresenta bene l’intraprendenza dell’americano che si auto-costruisce la casa come nel divertente cortometraggio di Buster Keaton One Week (1920).
As morning rolls around. And it’s another day of sun
Le immagini che vediamo in questi giorni della distruzione di interi quartieri come uno scenario di guerra impongono una riflessione sulla ricostruzione che non può avvenire, come dopo ogni tornado o alluvione, come prima, facendo gli stessi errori come se nulla fosse accaduto.
E allora Los Angeles deve guardare dentro sé stessa e capire cosa fare da grande affinché possa ancora alimentare il sogno.
Immagine copertina: ABC Ciencia news
Articolo pubblicato nell’ambito della collaborazione con archphoto.it: https://www.archphoto.it/piccardo-los-angeles-la-metropoli-catastrofica/
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cambiamento climatico , incendi , los angeles , stati uniti
Last modified: 11 Gennaio 2025