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Marco FalsettiWritten by: Professione e Formazione

Il ritorno di Paul Rudolph

Il ritorno di Paul Rudolph

Una grande retrospettiva al Metropolitan Museum of Art di New York ne esplora le case sperimentali, le opere civiche e le visioni utopiche

 

NEW YORK. Per la critica architettonica – soprattutto americana – Paul Rudolph (1918-97) rappresenta da sempre una figura controversa, difficile da inquadrare al di fuori di quella generale temperie tardomoderna che spazia da Louis Kahn a Eero Saarinen.

Se Kahn (o meglio, il Kahn “maturo”), con i suoi assiomi ermetici ispirati da una forma di consapevolezza che rasenta l’illuminazione – e che non a caso Balkrishna Doshi definirà tipica di uno yogi –, è figura che getta scompiglio e disorienta i critici per la complessità dei rimandi e il modo in cui risemantizza l’esperienza dell’antico, Rudolph sembra celarsi dietro un linguaggio raffinato e perturbante, legato ad una visione eroica del modernismo che i riferimenti presenti nei suoi scritti non contribuiscono a disvelare. Eppure non mancano, nella sua parabola, stagioni critiche e momenti fondativi, come l’esperienza ad Harvard con Walter Gropius e Marcel Breuer, oltre all’alterno rapporto con l’ex compagno di studi Philip Johnson. 

 

Precursore del modernismo tropicale e maestro del brutalismo

Enfant prodige dell’America degli anni ’50, nonché uno tra i più pubblicati architetti dell’epoca, nella prima fase della sua attività Rudolph si afferma come artefice di quel modernismo tropicale che ha nella Florida il suo ideale incubatore. Le ville disegnate insieme al più anziano socio Ralph Twitchell per una clientela sofisticata ed esigente, pronta ad abbracciare gli orizzonti del leisure dopo le ristrettezze del decennio precedente, declinano con rara potenza il sogno americano del tempo. Nel volgere di qualche anno Twitchell e Rudolph imprimono all’architettura della Florida un’accelerazione improvvisa, spostandone la traiettoria dal pastiche del revival coloniale spagnolo e mediterraneo – ancora diffuso per tutti gli anni ’30 e ’40 – ad un nuovo e maturo linguaggio a stelle e strisce. Si sussegue così una fortunata ed emblematica teoria di ville (Denman, Cocoon, Walker, Revere ecc.) dove Rudolph si confronta con un’ampia gamma di materiali e tipologie edilizie, introiettando allo stesso tempo alcuni di quei caratteri regionali che diverranno parte del lessico del modernismo successivo.

Il grande successo delle opere in Florida gli procura nuovi e più complessi incarichi i quali, insieme alla sua natura sperimentalista e inquieta, lo inducono a trasferirsi nel nord per seguirne i cantieri. Sono di questi anni i progetti del Jewett Arts Center, del Wellesley College e del Blue Cross Building. Parallelamente, inizia a ricevere inviti come visiting critic e lecturer presso prestigiose scuole di architettura, tra le quali l’Università di Yale, che infine lo chiama a dirigere il Dipartimento di Architettura. È il momento dell’apogeo, costellato di strutture monumentali (l’Art and Architecture Building di Yale, il Government Services Center di Boston e il campus della University of Massachusetts di Dartmouth) dall’inconfondibile linguaggio brutalista di cui Rudolph diviene in breve tempo indiscusso maestro, nonché uno tra i più celebrati esponenti al mondo.

In questa fase riesce peraltro a intrecciare una solida rete di relazioni internazionali che lo porta in contatto con i giapponesi di Metabolism (principalmente Fumihiko Maki) con i quali, insieme a Kahn, condivide alcuni presupposti teorici. Rudolph si afferma inoltre come alfiere dell’Urban Renewal, quella forma tutta americana di sovvenzionamento pubblico, caratteristica degli anni ’50 e ’60, che rappresenta l’ultimo tentativo dello stato d’inserirsi nella pianificazione urbana senza abdicare alla speculazione. 

 

Ascesa e caduta

L’inaugurazione dell’A&A Building di Yale, funestata dalla morte del rettore Griswold, grande mecenate di Rudolph, segna una svolta negativa per la sua carriera, alla quale concorrono vari fattori quali la decisione di lasciare l’università e tornare alla professione, la cancellazione della maggior parte dei programmi dell’Urban Renewal e, non ultimo, l’emergere di una nuova e più ideologica visione dell’architettura. Rudolph, che pure era stato un precoce contestatore del dogmatismo accademico, finisce con l’essere associato dai suoi detrattori all’establishment (al pari di altri come Johnson, che tuttavia riescono a virare, con una certa dose di malizia, verso nuovi linguaggi), divenendo oggetto della critica serrata della generazione emergente.  

Gli ingenerosi attacchi di Robert Venturi e Denise Scott Brown, che eleggono un edificio di Rudolph a capro espiatorio dei mali dell’architettura del tempo – irrelevant sarà il lapidario giudizio pubblicato su Learning from Las Vegas, con tanto di tavola comparativa con la Guild House –, danno vita ad un “golpe bianco” teso ad affermare un paradigma impostato sull’intellettualizzazione del progetto piuttosto che sulla sola espressione formale. La complessità del pensiero di Rudolph va naturalmente ben oltre il formalismo al quale da quel momento viene inestricabilmente associato, e sebbene il suo lavoro continuerà con successo per molti anni ancora, finisce ai margini di quel dibattito culturale di cui era stato protagonista nella prima fase della sua vita professionale. 

Nei 30 anni successivi alla sua morte, la figura di Rudolph è rimasta in uno stato di criostasi, sospesa tra i potenti immaginari dei suoi inconfondibili disegni (non a caso il libro di Reyner Banham, Megastructure: Urban Futures of the Recent Past, ne aveva uno in copertina) e le enigmatiche, contestate opere degli ultimi anni rivolte a un mondo desideroso di affermarsi, che Rudolph riteneva si sarebbe trovato di lì a poco al centro del futuro.

 

L’omaggio del MET di New York

La grande retrospettiva del Metropolitan Museum of Art di New York – la prima dedicata a un architetto da 50 anni a questa parte -, “Materialized Space: The Architecture of Paul Rudolph” (fino al 16 marzo 2025), dimostra in tal senso un rinnovato interesse per il maestro di Elkton. A cura di Abraham Thomas, essa ripercorre il multiforme universo rudolphiano, dalle Florida Houses ai campus universitari, dalle megastrutture agli interni e al design, ponendo altresì in evidenza come il problematicoposizionamento” di Rudolph all’interno della storia dell’architettura sia in parte responsabile della demolizione di molte sue opere. Reassessing Rudolph è peraltro il titolo di un recente volume curato da Timothy M. Rohan, tra i primi a richiamare l’attenzione sul corpus dell’architetto.

La recente riscoperta del brutalismo – e la sua nuova fortuna in pressoché tutti i campi, dagli album musicali ai videogiochi, dai sequel di film celebri come Blade Runner 2049 all’intelligenza generativa, per non parlare del prossimo The Brutalist, con protagonista Adrien Brody, già acclamato dalla critica – ha del resto caratterizzato buona parte delle ricerche degli ultimi anni; si è trattato di un percorso indubbiamente ondivago e per certi versi a ritroso, che dalle sue filiazioni in quelle che erano allora periferie degli imperi (l’ex Yugoslavia o il Medio Oriente) sta progressivamente rifocalizzandosi sul cuore del problema. Dalle suggestioni dei protagonisti “minori”, tanto più interessanti da affrontare quanto più esotico è il contesto di riferimento, la questione sta ora ritornando alle sue radici, cioè a quei maestri “difficili” di cui si è spesso cominciato a riparlare a partire da ambiti specifici e settoriali come quello ingegneristico (un diverso approccio, non meno interessante ma certamente più laico). Il problema sembra dunque nuovamente volgere verso il piano del linguaggio e le sue implicazioni; un tema, nel caso di Rudolph, a lungo equivocato con un formalismo fine a sé stesso e dal sapore manierista. 

Ora, con una mossa inattesa, il MET rimette la palla al centro, riconoscendo la necessità di tornare a confrontarsi coi maestri, specie quando la loro opera suscita una rinascita immaginativa che apre nuove domande.

Immagine copertina: ritratto di Paul Rudolph di fronte all’ Art & Architecture Building di Yale (Courtesy of Boston Globe)

Autore

  • Marco Falsetti

    Nato a Cosenza nel 1984, è Architetto e PhD, docente a contratto presso la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. Le sue ricerche riguardano la morfologia urbana, i frammenti identitari della città moderna e il ruolo dei grandi maestri nella formazione della coscienza progettuale contemporanea. Dal 2012 svolge attività progettuale, ricevendo premi e riconoscimenti. Ha pubblicato le monografie "Roma e l’eredità di Louis I. Kahn" (con E. Barizza, 2014), "Annodamenti. La specializzazione dei tessuti urbani nel processo formativo e nel progetto" (2017). 2019 Paesaggi oltre il paesaggio" (2019)

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Last modified: 30 Settembre 2024