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Burj Al Babas, più incubo che favola

Burj Al Babas, più incubo che favola

Presso l’antica città di Mudurnu, in Turchia, il punto sul fallimentare progetto di resort per un turismo di lusso

 

Negli ultimi vent’anni, in Turchia si è assistito a un’eccezionale e drammatica crescita di progetti destinati al turismo, in particolare a quello dal Medio Oriente e dagli stati Arabi.

Lusso alieno nel cuore della Turchia storica

Il complesso residenziale extra-lusso di Burj Al Babas, la cui costruzione venne annunciata nel 2011 e il cui cantiere è stato aperto nel 2014, costituisce uno dei casi emblematici e visivamente più sconcertanti di questa tendenza. Il progetto prevedeva la costruzione di 732 ville di lusso e un centro commerciale su una superficie totale di 750.000 mq (più del doppio della superficie del quartiere di City Life, a Milano), per un investimento stimato di 200 milioni di dollari e un tempo di realizzazione di quattro anni.

L’area prescelta si trova in un’estesa valle alla base delle montagne nord-occidentali della Turchia, nella regione di Bolu, a soli tre chilometri dalla città di Mudurnu. La città è oggi frequentata meta di turismo anche internazionale poiché conserva fonti e strutture termali di epoca romana. Ma, con totale indifferenza verso il contesto, l’operazione immobiliare di Burj Al Babas ha completamente distorto le centenarie pratiche di ospitalità locali in nome di servizi indirizzati a target esclusivi.

 

Il contesto di Mudurnu

Il contesto urbano e naturale di Mudurnu costituisce un paesaggio le cui architetture monumentali e civiche si sono sviluppate in armonia con la valle fluviale in cui sorgono. Dal 1992 la regione è stata riconosciuta come area urbana protetta. Le caratteristiche distintive delle sue abitazioni tradizionali, analogamente ad altre città del Mar Nero occidentale, includono l’uso preponderante del legno come materiale da costruzione, tetti a falde spioventi e intagli lignei decorativi in facciata. A Mudurnu, inoltre, sono ancora presenti tre moschee costruite tra il XIV e il XVI secolo: la moschea Imaret (di cui rimangono solo le fondamenta), la moschea Yıldırım Bayezıd e quella del sultano Solimano; l’una, testimonianza di un’architettura ottomana antica, la seconda appartenente al periodo ottomano classico, entrambe oggi ancora in uso. Altre architetture di grande valore storico e culturale sono la Cittadella bizantina, la Torre dell’orologio e l’antico bazar (Arasta) situato nel centro della città.

Tuttavia, oltre all’innegabile ricchezza architettonica e costruttiva ottomana, Mudurnu è testimonianza di un vivace e peculiare patrimonio immateriale, che preserva la memoria dell’Ordine di Ahi (Akhismo), un sistema di confraternita di gilde di mercanti e artigiani fondato all’inizio del XIII secolo. Basato su una filosofia di tolleranza ed equa distribuzione della ricchezza, l’Ordine nacque dalla volontà d’integrare gli usi e i costumi turchi con la fede musulmana, per creare opportunità di lavoro per i mercanti e gli artigiani emigrati dall’Asia all’Anatolia e per regolare standard di qualità di merci e livelli di produzione. Inoltre, esso promuoveva valori etici e qualità morali di altruismo, trasparenza e solidarietà. Derivato dall’arabo “fratello”, il termine Ahi significa proprio “generoso” e “ospitale”.

L’immenso patrimonio immateriale di Mudurnu legato alla tradizione Ahi comprende ancora oggi una serie d’incontri (come i birikme e le notti dell’henné), festività organizzate dai mercanti, celebrazioni in onore di santi, pratiche tradizionali quali la preghiera dei mercanti o preghiera dell’abbondanza, danze, leggende, dialetti e canti popolari.

Proprio nel 2015, in concomitanza con i primi cantieri di Burj Al Babas, Mudurnu è stata candidata a far parte della World Heritage List dell’Unesco e, nel 2018, è stata riconosciuta fra le “Città slow” della Turchia.

 

Burj Al Babas: da sogno a città fantasma

L’ambiziosissimo progetto di Burj Al Babas, promosso dal gruppo Sarot, è stato un totale fallimento. Le 732 ville, concepite come piccoli castelli disneyani di stampo europeo (o ispirate ad architetture turche dal valore monumentale quali le torri di Galata e di Maiden a Istanbul), con tanto di torri cilindriche e archi rampanti, sono completamente estranee alla tradizione costruttiva locale e minano il valore culturale e ambientale dell’area. Dall’apertura del cantiere, per il quale è anche stata abbattuta un’area boschiva circostante, la popolazione locale si è opposta sia all’operazione altamente speculativa in sé, sia alla scelta di un linguaggio architettonico alieno alla storia e al contesto.

Nel 2018, il progetto si è arrestato a causa di difficoltà finanziarie legate alla crisi economica in corso nel paese e al calo dei tassi di cambio. Il terzo Tribunale commerciale di Istanbul ha dichiarato il fallimento del consorzio Sarot Group. In precedenza, circa 350 case erano state vendute principalmente ad acquirenti dal Qatar, Bahrain, Kuwait, Dubai e Arabia Saudita, a un prezzo fra i 370 e i 500.000 dollari.

Mehmet Emin Yerdelen, presidente del Gruppo Sarot, si è appellato alla decisione del tribunale, presentando un’istanza di concordato che chiedeva il permesso di continuare le vendite in modo da saldare i debiti e completare lo sviluppo immobiliare, rietrando così degli investimenti. Tuttavia la società era già irrecuperabilmente indebitata per 27 milioni di dollari, e il progetto si è definitivamente bloccato.

Oggi Burj Al Babas è una città fantasma completamente abbandonata che conta 587 ville, un hotel, una moschea, piscine e un centro commerciale, in diverse fasi di cantiere. Un coacervo privo di un sistema infrastrutturale che lo renda un tessuto urbano.

Al di là dell’estetizzazione di un sito che tiene insieme scenografie disneyane e atmosfere post apocalittiche (non sono pochi i turistivlogger che ne hanno fatto stravagante oggetto d’interesse e due diversi video muscali lo hanno scelto quale suggestiva scenografia), e oltre a costituire il monito per future fantasie architettoniche impraticabili e dannose sul piano economico, Burj Al Babas testimonia oggi l’assurdità di progettare per un’ospitalità di lusso rivolta a pochi, ricchissimi turisti, ignorando completamente il valore di una vitale ospitalità – locale, lenta, integrata con il contesto e con la storia – coltivata e offerta da chi davvero abita i luoghi.

Immagine copertina: © Emasali stock /Shutterstock

 

“Sleeping Beauties”

Le architetture abbandonate di Burj Al Babas sono inoltre documentate da un cortometraggio di Alexandre Humbert realizzato per la mostraGeo-Design: Junk curata da Martina Muzi e Joseph Grima durante la Dutch Design Week 2019.

Autori

  • Elena Giaccone

    Elena Giaccone, architetta, ha studiato fra Milano, Torino, Parigi e Bruxelles. Dottoranda in Architettura storia progetto presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, indaga i processi di definizione, migrazione e comunicazione del progetto dello spazio pubblico, a partire dal secondo dopoguerra. É assistente alla didattica al Politecnico di Milano e Torino.

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  • Saskia Gribling

    Dottoranda presso il dipartimento di Architettura, Storia e Progetto del Politecnico di Torino. Laureata in Urban Studies presso l’Università Tecnica di Delft, la sua ricerca interroga il ruolo di pratiche emergenti nelle trasformazioni urbane. È attualmente parte del gruppo di ricerca “Architectural Design Theory” e segretaria editoriale della rivista “Ardeth”. Presso il Politecnico di Torino è collaboratrice alla didattica per diversi corsi triennali e magistrali.

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  • Didem Turk

    Didem Turk, laureata in Disegno urbano presso la Middle East Technical University di Ankara, con una specializzazione in progettazione parametrica, è dottoranda presso il dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. Con la sua ricerca, in collaborazione con Future Urban Legacy Lab (FULL) e la Transitional Morphologies Research Unit, si occupa di morfologia urbana comparata.

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Last modified: 2 Settembre 2024