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Francesca CremascoWritten by: Progetti

Mario Botta e la chiesa di San Rocco a Sambuceto: la grazia del tempo lungo

Incontro con l’architetto ticinese dopo la dedicazione, in Abruzzo, della sua ultima architettura sacra

 

SAN GIOVANNI TEATINO (CHIETI). A 18 anni dall’avvio, la chiesa di Sambuceto (di cui parlammo 7 anni fa) è giunta a compimento con la cerimonia di dedicazione avvenuta lo scorso giugno. Il suo lucernario sghembo in forma di croce rapportato alla figura umana, presente in basso sulla cantoria che, come nelle chiese antiche, sormonta l’ingresso, campeggia sulla copertina dell’ultimo libro di Mario Botta, Il cielo in terra. Un secolo di chiese e cappelle nell’architettura moderna e contemporanea (Scheiwiller, 2023). Un vuoto potente e scabro, trafitto dalla luce: la premialità dell’immagine sul volume testimonia un particolare coinvolgimento dell’autore, che siamo andati a trovare.

 

Una committenza forte tra molte incertezze

Il racconto che Botta ci offre di questo suo lavoro parte proprio dalle ultime fasi di gestazione che hanno portato alla forma della chiesa visibile oggi, perché l’idea del completamento è maturata durante la pausa del Covid. Interpretando il linguaggio moderno, la chiesa di San Rocco era stata concepita in calcestruzzo armato a vista. 

Il progetto, fortemente voluto dall’arcivescovo Bruno Forte, era stato avviato nel 2011 con l’intento di dare all’abitato di Sambuceto (entroterra pescarese e “città dei servizi”, con aeroporto, ospedale e scuole) un luogo simbolico e centrale. L’opera, però, si era avviata tra grandi incertezze (assenza di fondi, molteplici interruzioni, tra cui il fermo pandemico). Tuttavia, questa dilatazione del tempo – ce lo conferma lo stesso Botta – ha garantito lo spazio per una maturazione del pensiero architettonico e dell’attuale progetto, realizzato quasi per graduale sedimentazione.

Lo spazio sacro ha raggiunto la sua definizione ultima, solo nell’ultimo periodo. Emerge con chiarezza la capacità del progettista di portare a compimento un’opera aperta, che aveva elementi d’indeterminatezza iniziali, alimentati dall’effetto d’incompiutezza tipica di un cantiere lunghissimo. Proprio questo status d’incompiuto ha lasciato aperto il campo delle possibilità di completamento. 

 

Un cantiere lento come quello delle cattedrali

Botta si è trovato ad operare in uno spettro temporale inedito per la contemporaneità, in un tempo lento, oggi inconcepibile per la velocità imposta dalla società in cui viviamo. È però sempre accaduto nella storia dell’architettura sacra (e laica) destinata a durare nel tempo, di misurarsi e affinarsi sfidando tutte le incertezze, i dubbi e le opportunità con le quali un cantiere che procede lentamente ti investe assai più di una costruzione che avanza celermente. 

In queste circostanze, anche il continuo dialogo tra una committenza determinata e illuminata e il progettista è stato fondamentale per condurre a compimento un’opera di grande impatto. Così il progetto si è sviluppato nel tempo raccogliendo elementi che sono stati poi elaborati nei materiali e nelle scelte operative. Una modalità di progettare che non evolve solo mediante bozzetti e modelli, ma che raccoglie anche le riflessioni del tempo storico del cantiere e le traduce in aggiunte, misurandosi con le evoluzioni del pensiero e della forma mentre la costruzione avanza e il luogo si trasforma. 

D’altra parte, invertendo il punto di vista, questa architettura resta fortemente connotata dai suoi elementi fondativi (la geometria in primis), che determinano quel senso di completezza già percepibile senza alcun intervento sulle finiture, disponibili così ad accogliere variazioni che possono amplificare ma non alterare o determinare, l’architettura stessa. Tutto è definito dal linguaggio architettonico, senza rinviare ad altre componenti che sono evidentemente presenti: è “attraverso lo spazio configurato che l’architettura interviene come arte dello spazio, così gli spazi non sono mai neutri anzi dicono o non dicono qualcosa”. 

 

Un’eversione dello spazio aniconico

Botta, che nelle sue opere ha lavorato molto con il calcestruzzo a vista, rivela che l’occasione di riflettere sul modo di completare la chiesa, in un momento storico di svolta – e di revisione dei linguaggi – fece maturare l’idea di lavorare sulla superficie absidale riportando nello spazio architettonico la suggestione dell’infinito anche attraverso i linguaggi delle arti pittoriche.

La sacralità dello spazio della chiesa di San Rocco, che nelle opere di Botta si configura nel trittico masse, cielo e luce, viene qui espressa anche attraverso il dipinto di un cielo stellato che si estende per l’intera superficie absidale, graduata con campiture piatte ma progressive nei toni del blu, dall’azzurro al nero intenso, e costellata da mille stelle dorate di quattro diverse dimensioni. L’intera superficie dell’abside trilobata relaziona ciò che è terreno – evocato anche dal pavimento in marmo nero – alla volta celeste, graduando dal celeste chiaro al blu intenso che sfuma nel cielo profondo fino al centro focale dell’abside maggiore, il luogo della croce, cui si rivolge lo sguardo del fedele. 

Il firmamento di Botta s’ispira ai cieli di Giotto alla cappella degli Scrovegni a Padova, alle campiture cromatiche di Mark Rothko, ai fondali dorati di Anselm Kiefer, e soprattutto riprende quella tradizione “dell’architettura delle chiese, – con una continuità millenaria attraverso i secoli dal Rinascimento fino al moderno – di avere un’estensione anche aldilà della forma e della plastica”.

In piena coscienza Botta si assume il rischio di adottare una sensibilità e un linguaggio proprio della pittura senza la mediazione o la collaborazione di un artista titolato: è un gesto che emerge come coscienza critica del linguaggio e d’innesto nella tradizione, ma anche come proposta di revisione di un’idea dell’architettura di cui propone il superamento. Lo considera un “rischio generazionale” in quanto “… tutto d’un colpo ho percepito i limiti figurativi del nostro tempo e ho riflettuto su come andare oltre”, riprendendo i legami con la pittura i cui esiti erano stati floridi fino ai primi anni del secolo scorso, poi degenerati in manierismo. “Questo fondale è nato come reazione all’attuale stato del decoro, surrogato gentile – per non dire altro – della pittura nelle chiese”, perché “le pitture delle chiese hanno una sorta di decorativismo perverso, che non è proprio ai valori che io difendo nell’architettura sacra”.

Il secondo rischio dell’operazione di Botta si esprime nella dissacrazione del materiale naturale, del beton brut a vista, che con coraggio, egli decide di coprire con la pittura eseguita su una superficie perfettamente liscia e omogenea che oblitera il calcestruzzo. Un’azione – consueta nell’architettura classica – di accogliere, con supporto adeguato, un’opera nell’opera, ovvero di completare lo spazio architettonico rispetto al suo significato anche grazie alle forme espressive di altri linguaggi. Non un’addizione accessoria, ma un’aggiunta semantica che contribuisce a rendere la chiesa uno spazio denso di significati simbolici, amplificando la percezione d’infinito dello spazio architettonico. La pittura offre una sostanza diversa dall’architettura, una sostanza ad essa appropriata, un’amplificazione ermeneutica, uno spazio pittorico espansivo all’interno di uno spazio conformato, introducendo una declinazione nuova nella dialettica interno-esterno propria delle chiese di Botta. 

 

“Scrittura della luce”

L’invariante è lo spazio e la luce. In un rapporto inscindibile, la luce fonda lo spazio ed esso rende visibile quell’entità luminosa invisibile che necessita di materia per rivelarsi. A Sambuceto l’architettura è una vera e propria “scrittura della luce” in quanto vi è una piena adesione della geometria generativa dello spazio alla forma del simbolo. Il grande lucernario a croce greca è inclinato di 30° rispetto all’aula quadrata della chiesa e ne è l’unica fonte di luce naturale. L’interpolazione delle geometrie lungo assi inclinati forma superfici esatte di uno spazio la cui resa plastica è enfatizzata dalla luce. 

La geometria è stata definita tramite disegni e modelli. A partire dalle caratteristiche del luogo è stato fissato un primo asse fondamentale, che determina la posizione della chiesa e il suo orientamento. Il secondo asse portante è l’inclinazione absidale che salda a terra la chiesa e la fa ergere contro la gravità che la ancora. Il terzo asse fondamentale è quello del piano inclinato della croce, lungamente ricercato nei bozzetti a chiaroscuro serviti per misurare la “rinuncia alla luce zenitale”. Oltre al valore simbolico, nell’apertura sommitale a croce Botta sonda le differenze nella percezione dello spazio e delle superfici date dall’inclinazione delle pareti in una luce non-zenitale. 

All’intradosso, la superficie è plasmata per accogliere e diffondere la luce, ricevendo dalla sua inclinazione una forza completamente diversa e nuova rispetto alla normale complanarità. Inoltre, ai vertici del lucernario a croce, la luce scende senza ombre, si scambia con le superfici delle pareti che diventano luminose. La croce sommitale genera proiezioni continuamente mutevoli e suggestive su tre facciate. La luce “gira 360 giorni all’anno con delle impressioni straordinarie. Ogni tanto la croce è assiale e corrisponde al pavimento dove si staglia bianca a terra e poi si piega”. Questa croce, dice Botta, “mi ha aiutato a superare l’idea della decorazione che non è per me possibile nelle arti perché è una degenerazione, e allora ho capito poi che questa croce era cosmica”.   

La chiesa di San Rocco è uno spazio esatto, finito, composto perfettamente nella geometria, il cui carattere induce il soggetto ad esperire l’infinito per tramite dello spazio. Questo fatto, determina un’intrinseca monumentalità dello spazio. Con quest’opera Botta suggella la sua visione dell’architettura che “porta con sé l’idea del sacro”. 

 

Immagine copertina: la chiesa di San Rocco e il complesso parrocchiale da sud-ovest (© Enrico Cano)

 

Autore

  • Francesca Cremasco

    Laureata in Architettura allo IUAV, consegue il dottorato di ricerca in composizione architettonica e urbana all’Università di Udine (2016). Interessata al linguaggio multidisciplinare ed alle teorie dell’architettura, svolge attività di ricerca presso IUAV (2014) ed in forma indipendente coniugando l’attività professionale alla ricerca teorica. Collabora alla didattica (IUAV, UniUD) per le materie di progettazione architettonica ed illuminotecnica.

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Last modified: 19 Luglio 2024